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DROME magazine Anno 3 Numero 11 ottobre-dicembre 2007



Jota Castro

Silvano Manganaro

Enjoy your travel
Oggigiorno è più pericoloso essere diplomatici o artisti? Chiedetelo a Jota Castro.



arti/culture/visioni


DROME magazine n. 11 - the FRONTIER issue
(Ottobre_Dicembre 2007 // October_December 2007)

EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN / JOTA CASTRO / WINSHLUSS / AMÈLIE NOTHOMB / JEAN-LUC NANCY / BRIDA / SHELLAC / ELEONORA CHIESA / FERIDUN ZAIMOGLU / ROSA CASADO

cover: Susanna Majuri

GUEST LIST: Luigi Prestinenza Puglisi, Bogomir Doringer, Mark O’Sullivan, Elena Forin, Janka Vukmir, Sol Henaro

PRÉLUDE

INTRO: Damian Le Bas // Piero Golia // Romuald Hazoumé // Maaria Wirkkala // Ilenia Monterosso // Mary Mattingly // Gilbert Garcin

INTRODUZIONE by Elena Forin

SYNUSI@BLOG by Casaluce-Geiger _ guest: MARKUS SCHINWALD

BLIXA BARGELD - EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN

JOTA CASTRO

LA FRONTIERA NON È UN MURO // THE BORDER IS NOT A WALL

¡FRONTERA! by Sol Henaro

TRANSFRONTIERE

JEAN-LUC NANCY

L’ASSENZA / L’ESSENZA DEI CONFINI // THE ABSENCE / THE ESSENCE OF BORDERS

PICCOLO REGESTO DELLA FRONTIERA // A SHORT SUMMARY OF THE BORDER

FRONTIER/A by Luigi Prestinenza Puglisi

IL TERRITORIO È DESTINO // THE TERRITORY IS THE DESTINY by Janka Vukmir

MIGRATION ADDICTS

ROSA CASADO

FERIDUN ZAIMOGLU

AMÈLIE NOTHOMB

WINSHLUSS

ELEONORA CHIESA

BRIDA

JEAN-CHARLES DE CASTELBAJAC

FASHION SHOOT ZUGVÖGEL photo by Bogomir Doringer

FASHION SHOOT LEFT BEHIND photo by Mark O’Sullivan


+ DROMELAND:
FRESH INK / KIOSQUE / STRIP / DIGITALVIDEODROME / TRACKLIST interview: SHELLAC / DROMUS / ADVVERTENZE / HIPPODROME: Diego Valentino / MEMENTO FLASHBACK / MEMENTO ZOOM / MEMENTO / MEMENTO BERLIN by vonLUDWIG - Styles Report Berlin / SYNDROME
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Jota Castro
A mi tiempo, 2005
photography by César Delgado Wixan

Jota Castro
500 ways, 2006
gommone, monete, legno, cm 64 x 160 x 265
ed.1/2 + a.p.
collezione Ovidio Jacorossi, Roma
courtesy Umberto Di Marino Arte Contemporanea, Napoli

Jota Castro
Borders, 2006
specchi, cm 35 x 240
ed. 1/3 + a.p. (silver)
courtesy Umberto Di Marino Arte Contemporanea, Napoli

Jota Castro
China, 2006
scarpe, cm 90 x 360, ed. 1/3+ a.p.
dettaglio
collezione Ernesto Esposito, Napoli
courtesy Umberto Di Marino Arte Contemporanea, Napoli

Frutto di una vita vissuta ovunque e in nessun luogo, Castro è la straordinaria combinazione di rabbia e ironia, studio e attivismo, poesia e provocazione. Dal sarcasmo spiazzante ma sempre calibrato - da giurista ex diplomatico quale è -, Castro, radicale interprete della nostra epoca, anzi, del su tempu, è un indomito esploratore delle interferenze tra produzione artistica e azione politica, tra iniziative individuali e partecipazione collettiva, tra “malmediatizzazione” e necessità dello scambio, tra legalità e illegalità, tra democrazia e terrore. Per proporre nuove vie di lucida resistenza.

Di questi tempi si fa un gran parlare di crisi della politica, di sfiducia nei politici o, più in generale, di fine dell’“arte della politica”. Ragionare allora di frontiere e confini con chi usa la politica - o, per meglio dire, contenuti politici - per fare arte potrebbe invertire il problema e innescare riflessioni interessanti.

Jota Castro (nato in Perù nel 1965, ma residente a Bruxelles) affronta temi delicati come i conflitti sociali e le problematiche planetarie con sarcasmo e profondità, alternando astuta diplomazia a graffiante ironia. La grande capacità di Castro è quella di riuscire a illustrare concetti complessi in maniera chiara e penetrante, magari semplicemente accostando tra loro oggetti disparati ma dall’alto valore simbolico. I suoi lavori dimostrano ancora una volta come una sola immagine sia più efficace di mille parole e come gli artisti possano ritagliarsi un ruolo sociale e politico anche all’alba del XXI secolo.

Per capire come la pensa gli abbiamo fatto alcune domande…

DROME<: Alla fine degli anni Novanta hai deciso di abbandonare la tua carriera diplomatica che ti aveva portato a collaborare con L’ONU e l’Unione Europea per abbracciare quella artistica. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
JOTA CASTRO: A questa domanda dò sempre la stessa risposta: perché abbiamo una sola vita! Quest’unica vita penso che vada vissuta in maniera intensa. Questo per me significa fare l’artista!

D: Il tuo lavoro viene spesso definito “arte politica”. Le tue opere parlano di questioni sociali e politiche a livello planetario e quindi, inevitabilmente, di frontiere e confini (tra Paesi ricchi e poveri, tra il singolo individuo e ciò che viene considerato “straniero”, ecc.). Pensi che un’opera d’arte possa sollecitare l’agire politico, intervenire sulla società o, addirittura, cambiare il mondo?
JC: Fino ad ora nessuna opera d’arte ha mai cambiato il corso dell’Umanità, ma rimane ancora un sogno… Penso che, nel 2007, sia possibile tentare di spiegare qualcosa sulla nostra società usando l’arte come strumento d’indagine. L’arte è uno dei pochi spazi rimasti in cui si può parlare liberamente di questioni sociali senza alcun controllo. Per me l’artista ha un importante ruolo da giocare nella società, e questo è qualcosa di politico.
La prima frontiera che mi auguro possa cadere è quella che separa l’Arte dalle scienze sociali. Scienze sociali, conoscenza, informazioni sono le mie matite e i miei pennelli…

D: Non credi che l’arte sia, in un certo qual modo, sempre “politica” (nel senso più ampio del termine)? D’altronde, implica inevitabilmente una presa di posizione estetica e la scelta del ruolo dell’artista nella società contemporanea…
JC: Per me non è affatto un problema individuare il mio ruolo nella società: lo so perfettamente. Sono un artista, se la gente non lo capisce, non è un problema mio. E così torniamo sul problema delle frontiere… Quando l’arte è puramente estetica non crea problema, se invece si basa su idee e principi provoca continuamente difficoltà di comprensione. Oltrepassare questa frontiera è per me uno stimolo.

D: Qual è la differenza tra fare arte e fare comunicazione (anche politica)?
JC: L’artista comunica le sue idee. Una persona che fa comunicazione molte volte trasmette idee o prodotti di altri. Si comunica per vendere un’idea o un prodotto del quale c’è bisogno o del quale si può creare il bisogno. Dell’arte non c’è bisogno.

D: Le tue opere nascono dall’accostamento di due oggetti spesso molto lontani tra loro: un matrimonio che colpisce lo spettatore con la completezza di un aforisma e l’efficacia di una battuta di spirito. Qual è il processo mentale che sta alla base delle tue opere?
JC: L’inquietudine! Osservo, analizzo… Cerco sempre di immaginare un’opera capace di mettere in luce un problema. Generalmente, prima di realizzare concretamente l’opera, butto giù un progetto scritto. Se mi convince, passo alla realizzazione dell’opera.
Basare il mio lavoro sull’osservazione di determinate problematiche mi fa sperare di poter lavorare tutta la vita: ogni giorno c’è un problema nuovo!

D: Torniamo a parlare di confini… Stai portando avanti, con Santiago Sierra, un lavoro riguardante il grande muro che gli Stati Uniti stanno costruendo lungo il confine con il Messico. Ce ne vuoi parlare?
JC: Santiago e io non siamo le uniche persone che lavorano a questo progetto. Un qualcosa di grandioso davvero, pensato dalla curatrice messicana Mariana David.
Utilizzare la frontiera fra Messico e Stati Uniti ci dà la possibilità di lavorare con la nozione di primo e terzo mondo. Ma ci permette anche di “giocare” con le differenti interpretazioni delle leggi ed anche con la credibilità e l’importanza che viene data agli uomini in funzione della loro origine o del colore della loro pelle. Molta gente in Europa è ossessionata dai cambiamenti economici che la Cina sta vivendo. Basterebbe, invece, andare a Juarez per vedere quello che un Trattato di Libero Commercio può fare! Juarez è per me la metafora dell’“Estremo Occidente”.
Se in questo progetto riusciremo a realizzare tutto quello che abbiamo in mente di fare sarà meraviglioso, ma abbiamo molti problemi politici, di censura e di denaro… E’ un po’ la nostra odissea e anche la nostra frontiera.

D: Uno dei tuoi progetti più noti è probabilmente la creazione, insieme a Evelyne Jouanno, della “Biennale dell’Emergenza”, in cui il concetto di abbattimento di frontiere e avvicinamento tra luoghi distanti era fondamentale. Qual è il bilancio finale di questa esperienza?
JC: Intellettualmente è sempre un piacere concretizzare un’idea. Sono orgoglioso di questo progetto e di averlo ideato insieme a Evelyne Jouanno. Mi è molto dispiaciuto, ma per una serie di problemi personali ho dovuto lasciare il progetto… sono cose della vita!! Questo progetto, però, mi ha convinto della necessità di lavorare sulla nozione di Urgenza. Credo che gli artisti debbano occuparsi della contemporaneità, della necessità di interpretare gli eventi attuali, senza aspettare che un tema sia storicamente accettato per considerarlo rilevante come materiale.

D: Qual è, secondo te, la frontiera che non andrebbe mai superata e quella che invece dovrebbe esserlo al più presto?
JC: La prima frontiera da superare dovrebbe essere se stesso. Ho realizzato un’opera che raffigura la parola “BORDERS” scritta con lettere specchianti. La prima frontiera è quella che si vede nello specchio: se stesso. Per il resto, non vedo barriere da non superare. Per me, se c’è una frontiera significa che c’è qualcosa da superare, bisogna andare verso ciò che sta dall’altra parte e viceversa…