Arte e Critica Anno 14 Numero 53 dicembre 2007-febbraio 2008
Intervista
DB Lucy, prima di parlare del vostro lavoro comune, dello Studio Orta e dei progetti cui state lavorando, mi piaceva che mi raccontassi della tua progettazione di moda – mi verrebbe da dire – militante e del tuo impegno in questo senso sia accademico che artistico.
LO Nel 2002 ho avuto l’incarico di ricercatore alla University of the Arts London; si trattava esattamente della prima cattedra Rootstein Hopkins presso il London College of Fashion. Un ruolo importante, dal momento che l’industria della moda sta attraversando una fase di grande trasformazione nell’ambito dei diversi settori dello sviluppo sostenibile includenti l’ecologico e il sociale; salute e benessere si fondano sul rapporto che la moda ha col corpo, e il contributo che essa deve arrecare al cambiamento sociale. Già di per sé la moda soddisfa la naturale necessità del coprirsi, appaga inoltre la nostra esigenza espressiva, creativa e intellettuale; il suo potere sta nell’essere un’attività collettiva e nel coinvolgere diversi livelli sociali.
Continuo a lavorare alla mia ricerca che collega mobilità, abbigliamento e architettura, indagando aspetti sociali come comunicazione e identità; sviluppo ulteriormente i momenti più rappresentativi del mio lavoro e cioè Refuge Wear, Body Architecture e Nexus Architecture, ipotizzando anche una nuova serie, Urban Life Guards, che considera il corpo come allusiva struttura di riferimento. Nel contesto accademico, ho il ruolo di guida dei giovani ricercatori in possesso di una formazione pratica che entrano nel campo della moda, ambito questo fino ad oggi occupato prevalentemente da storici e teorici. Ricopro una posizione centrale nello sviluppo del nuovo University Research Centre for Fashion Body and Material Cultures. Insieme al London College of Fashion, al Dr Francis Corner e ai miei colleghi ricercatori (storici, teorici, sociologi, psicologi, scientists designers e artisti) abbiamo dato vita a un forum di dibattito, il Better Lives, finalizzato a estendere l’influenza della moda in senso economico, sociale e politico, riflettendo anche su come la moda possa giocare un ruolo centrale su salute, ambiente e contesti sociali più ampi, e analizzando come inserire tali intenti nel circuito convenzionale della didattica specifica e della ricerca.
DB Jorge, mi piacerebbe saperne di più del lavoro con la luce e le proiezioni sugli edifici che hai svolto prima in Argentina e poi in tanti altri paesi... Come nasceva e con quali istanze?
JO La mia passione e l’impegno per l’arte sono stati un prolungamento delle ideologie del movimento giovanile, sono state esattamente l’ossessione di cui avevamo bisogno per costruire un mondo più giusto. Convinti che l’arte avesse una funzione strategica in questo processo, era importante cercare un nuovo pubblico, al di là dei circuiti tradizionali e chiusi vigenti nel 1970 a Rosario. Ho provato a fare arte e a diffonderla al grande pubblico cercando nuovi approcci; introducendo i suoi aspetti poetici nelle vite di ogni giorno, rimuovendo l’arte e gli artisti dai loro piedistalli. Mentre in Europa i movimenti giovanili si stavano esaurendo, in America Latina, in seguito all’utopia di Che Guevara e alla “nuova teologia della liberazione”, acquistavano forza. Erano anni di idee rivoluzionarie che coinvolgevano le università e gli intellettuali d’élite. Come conseguenza i dittatori, il generale Pinochet in Cile e il generale Jorge Rafael Videla in Argentina, presero il potere tra il 1976 e il 1983. Lo stato d’assedio proibì l’organizzazione e la partecipazione a incontri pubblici e privati. Per contrastare questo stato di cose ci impegnammo in forme di organizzazione non ufficiali. La Mail Art, ad esempio, o il Poema-Concert. I musei non erano interessati a tali forme d’arte; ci eravamo allontanati troppo dalle preoccupazioni dell’estetica convenzionale vigente, non esistevano gallerie d’arte commerciali nel senso che conosciamo oggi e non avevamo ancora cosa vendere. La maggior parte delle nostre opere veniva data a titolo gratuito. È questo il motivo per cui abbiamo sviluppato strategie di distribuzione/comunicazione. Il mio rapporto con la video arte attraverso i new media faceva parte di questa strategia. Sono dei primi anni ‘80 i grandi lavori di arte pubblica realizzati usando i primi proiettori per diapositive e monitor video: Transcurso Vital e Testigos Blancos. In Argentina, il nostro lavoro non perseguiva alcun fine economico. Puntavamo a provocare e stimolare una voce collettiva, a operare attivamente per trasformare la società attraverso i canali dell’arte. Ho iniziato a sperimentare con la luce e i proiettori nei primi anni 80 a Parigi; insieme a ingegneri francesi ho sviluppato la tecnologia per proiettori di immagini su larga scala. Potevamo proiettare la luce a oltre un chilometro e questo ci ha aperto una molteplicità di ipotesi e possibilità verso la Public art. Il proiettore PAE diventò il mio pennello e il primo Light Work fu Graphic Light Poem (1991), al Centre Georges Pompidou di Parigi, seguito dalla scellerata spedizione di Machu Pichu in Perù (1992). Tutto questo fu l’inizio di un’avventura decennale, trascorsa realizzando opere monumentali ed effimere, richiamando anche centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo.
DB Nel 1991 nasce lo Studio Orta a Parigi e, più recentemente, nel 2002, il Dairy a Marne la Vallé.
La scelta del nome “studio”, in un periodo in cui il lavoro di gruppo o di coppia era abbastanza comune fra i giovani artisti, mi fa pensare ad una scelta da subito molto precisa rispetto ad un certo tipo di progettualità. È così? Cosa caratterizza questa vostra esperienza?
L+JO Negli anni è diventato molto difficile separare i nostri ruoli. Siamo perfettamente coordinati: uomo/donna, architetto/fashion designer, inglese/argentino, Lucy/Jorge. Il mondo dell’arte tende spesso a collocare separatamente le nostre rispettive attività, ma non è così semplice. Da quando è nato il nostro studio nel 1991 abbiamo vissuto e lavorato insieme, ci siamo dedicati ai nostri figli, siamo innamorati. La fondazione del Dairy ha reso tale fusione più evidente e in conclusione speriamo che ci sia solo un Orta.
Dirigiamo con i nostri collaboratori il processo di ricerca che perviene all’opera. Ciascun progetto diventa un canale per ogni tipo di espressione individuale, sia che appartenga agli assistenti che ai partecipanti alla community. Consideriamo ciò “co-creazione”.
Sperimentiamo costantemente un modo per attivare una energia comune, diventare dei veri e propri catalizzatori.
Insieme vorremmo essere agenti attivi in un mondo che tutti sogniamo.
DB Su quali ambiti in particolare avete scelto di operare in questi anni?
L+JO Abbiamo ufficializzato la collaborazione come Lucy + Jorge nel 1995, in occasione della nostra mostra Drink Water! presso la Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia durante la Biennale, e cominciato a lavorare insieme su tre aree di ricerca fondamentali: OrtaWater è incentrata sul tema della generale carenza dell’acqua e sulle questioni concernenti gli effetti che la privatizzazione e il controllo aziendale hanno sulla possibilità per tutti di accedere all’acqua pulita; Fallujah è una risposta alla situazione in Iraq, una riflessione sulle conseguenze dell’atroce invasione; e infine Antarctic Village, un tentativo ideale riguardante l’attuale problematica della migrazione e la condizione di rifugiati in cui si trovano tanti individui nel mondo.
DB Nel parlare del vostro lavoro, tra i ruoli che spesso assumete si fa riferimento a quello di mediatori. Il concetto di mediazione si fa sempre più presente in diversi ambiti, addirittura in quello penitenziario, come risposta ad una serie di questioni apparentemente irrisolvibili. Come intendete questo ruolo e in quali situazioni lo avete assunto?
JO In Argentina credevamo molto nella co-creazione, nella possibilità di una creazione condivisa supportata da un mediatore professionista che potesse attuare “strutture di fattibilità”. Lavoravamo secondo l’esperienza della vivencia (esperienza vissuta), della contestualità, per rendere più radicali le vite quotidiane perché sapevamo che un giorno saremmo stati privati di questa possibilità. Tutta la nostra energia era finalizzata a creare interazioni, alla trasmissione di un momento di vita condiviso. Spesso a conclusione di ogni progetto mettevamo da parte ciò che avevamo prodotto. Lavorando giorno e notte fino allo sfinimento, realizzavamo lavori straordinari che poi distruggevamo per ricominciare tutto daccapo. Le esperienze vissute e i loro resoconti erano la prova della durevolezza di questo lavoro in fieri, una continuità che spesso l’oggetto statico non era in grado di trasmettere.
LO Lavorare insieme in Europa ha cambiato le nostre metodologie. Continuiamo ad agire come mediatori insieme ai nostri collaboratori, diffondendo processi di ricerca e sviluppando strategie finalizzate a comunicare i problemi che nascono in corso d’opera. La differenza è che noi adesso generiamo molti artefatti diversi. Questi hanno a loro volta assunto la funzione di mediatori, in quanto sviluppano un passaggio attraverso cui attiviamo nuovi dialoghi.
DB A questo punto mi piacerebbe parlare di Antarctic Village – No Borders, un grande progetto che vi vede impegnati da molto tempo e che in questi mesi presentate alla Galleria Continua...
L+JO La ricerca Antarctic Village – No Borders comincia all’inizio degli anni ‘90; le origini di tale lavoro si ritrovano in opere quali Refuge Wear, o Body Architecture. Nel 1995 Jorge pubblica il suo progetto Passaporto Antartico che avrebbe potuto normalizzare i diritti di chi, trovandosi nella condizione di rifugiato o immigrante, ne era privo. Il passaporto ipotetico avrebbe definito lo status per un nuovo cittadino del mondo: ripudiando atti di barbarie, combattendo terrore e povertà, sostenendo il progresso sociale, salvaguardando la dignità umana, e difendendo i diritti inalienabili alla libertà, giustizia e pace nel mondo. Proponevamo un emendamento all’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, l’inserimento del diritto alla libertà di movimento. Dunque l’articolo 13,3 avrebbe recitato: “Ogni essere umano ha il diritto di muoversi liberamente e oltrepassare i confini del proprio territorio. Gli individui non dovrebbero essere considerati una questione meno importante rispetto a quella del capitale, del commercio, delle telecomunicazioni, dell’inquinamento, ciascuno dei quali conosce dei confini”.
Abbiamo scelto l’Antartide come simbolo di un territorio che accoglie chiunque, una vera e propria “Nazione del genere umano” e incarnazione di una speranza. Essa è in effetti l’unica regione sicura sulla terra, non rivendicata da alcun paese. È considerata politicamente neutrale. Il Trattato Antartico stipulato nel 1959 e firmato da 12 paesi ha preservato l’Antartide considerandola come area esclusivamente scientifica, ha stabilito la libertà di ricerca e la tutela ambientale, vietando sul suolo di questo sesto continente qualsiasi attività militare. In questo è consistito il primo accordo sul controllo delle armi durante la Guerra fredda.
Invitati alla prima Biennale Al Fin del Mundo, col supporto della Base Antártica Marambio, della Dirección Nacional del Antártico e della Fundación Patagonia Arte & Desafío siamo riusciti a realizzare finalmente il nostro sogno di un viaggio nell’Antartico finalizzato a indagare ulteriormente ciò che portavamo avanti da 15 anni. L’attuazione del progetto è stata la nostra nuova serie Antarctic Village, metafora della condizione di coloro che lottano per oltrepassare le frontiere e conquistare la libertà di movimento necessaria per fuggire dai conflitti sociali e politici. Una recente fonte universale afferma che 2,2 milioni di migranti giungeranno da oggi fino al 2050 nel mondo occidentale. Nel corso dei prossimi quattro decenni, si verificheranno migrazioni di massa, 1,6 milioni l’anno, dal continente africano e asiatico, uno sconvolgimento senza precedenti.
La nostra spedizione nell’Antartico ebbe luogo durante l’estate australe in coincidenza con l’ultima delle spedizioni scientifiche prima dei mesi invernali e prima che la massa di ghiaccio da attraversare divenisse troppo compatta. Qui a temperature estreme installammo il primo dei nostri villaggi simbolici: architetture modulari, cupole e rifugi nomadi. Le dimore, cucite a mano da un artigiano specializzato, sono costituite da brandelli di bandiere di nazioni diverse, frammenti di vestiario e guanti a simboleggiare la pluralità e diversità dei popoli. La manica di una camicia da lavoro dal collo bianco senza volto pende accanto alla manica di un maglione da bambino. Insieme, le bandiere e i vestiti sezionati decorati con inserti serigrafici che rimandano alla nostra nuova Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Nella galleria di San Gimignano sono in mostra elementi della nostra spedizione: disegni, giornali di bordo, dimore, paracadute, fotografie, video e molto altro.