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Arte e Critica Anno 14 Numero 52 settembre-novembre 2007



La scena Albanese

Teresa Ruggeri



trimestrale di cultura artistica contemporanea


52 ArteeCritica

040 LONDON BY FALL - FALL BY LONDON
di Ilaria Gianni

044 LA SCENA ALBANESE / THE ALBANIAN SCENE
di / by Teresa Ruggeri

050 A PROPOSITO DEL SURREALISMO E DEI SUOI DETRATTORI
Avviso ai naviganti
di Arturo Schwarz

053 INCONTRI E SCONTRI FRA ARTE CONTEMPORANEA E NEW MEDIA
MEETINGS AND BATTLES BETWEEN CONTEMPORARY ART AND NEW MEDIA
di / by Lorenzo Taiuti

056 PENSIERI IN CHIAROSCURO IX
di Alberto Boatto

059 SEGNI PARTICOLARI: INFINITO / PARTICULARITIES: INFINITY
Giovanni Anselmo
Intervista a cura di / Interview by Ilari Valbonesi

062 CIÒ CHE ANCORA PERSISTE / WHAT STILL HOLDS OVER
Regina José Galindo
a cura di / curated by Federica La Paglia e / and Rossella Moratto

064 LA MULTIDIMENSIONALITà DELL’IO. GIORGIO CIAM
di Viana Conti

066 ARTISTI EMERGENTI E “GIOVANI” GALLERIE A LONDRA
ISTRUZIONI PER L’USO / EMERGING ARTISTS AND YOUNG GALLERIES IN LONDON
INSTRUCTIONS FOR USE
Interviste a cura di / Interviews by Susanna Bianchini

070 LO SGUARDO ALLE COSE
Pietro Fortuna
Intervista a cura di Roberto Lambarelli

073 LA NUOVA “ORANGE REVOLUTION”. ARTE E SOCIETÀ IN UCRAINA
THE NEW “ORANGE REVOLUTION”. ART AND SOCIETY IN UKRAINE
di / by Claudia Zanfi

076 ANCORA PIÙ MONDI DI COSÌ / MANY MORE WORLDS THAN THESE
Gianni Caravaggio
di / by Valentina Ciuffi

090 IN VISTA DEL VENTESIMO DEL PECCI
Intervista a Marco Bazzini a cura di Paola Bortolotti

092 PROGETTO PER UNA MOSTRA A TRE
Conversazione tra Lorenzo Giusti, Cecilia Guida e Cesare Pietroiusti

093 DOMANI, A PALERMO
Intervista a Laura Barreca e Francesco Pantaleone
a cura di Daniela Bigi

096 TESTIMONIANZE DI UN ALTRO PASSATO
di Giuseppe Frazzetto

102 FESTARCH. Sulla prima edizione del Festival di Architettura di Cagliari
Osservazioni sul Festival, dal Festival e dentro una conversazione con
Gianluigi Ricuperati
di Valentina Ciuffi

103 LUCA VITONE E GLI OCCHI DI SEGANTINI
di Daniela Bigi

104 VETTOR PISANI A L’ISOLA DI SAN SERVOLO A VENEZIA
di Alberto Zanchetta
GERMAN LOVE SINFONIETTA
di Giovanna Dalla Chiesa

106 I PROGRAMMI DEL MAN DI NUORO
di Anna Guillot

107 INTERVISTA A JUSTIN LOWE
a cura di Simone Ciglia

108 DALLA CINA A BESLAN PASSANDO PER GOMORRA E GROUND ZERO. PIETRO RUFFO
di Flavia De Sanctis Mangelli

110 OPEN ON BLACK SILENCE. ROSA BARBA
Intervista a cura di Chiara Sartori

112 DUE GRANDI A NIZZA: GINO DE DOMINICIS E MICHELANGELO PISTOLETTO
di Giovanna Dalla Chiesa
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

1985. Trent’anni fa inaugurava il Castello di Rivoli
Roberto Lamabarelli
n. 82 estate 2015

Céline Condorelli
Massimiliano Scuderi
n. 80 primavera 2015

Note su Benoît Maire, Renato Leotta, Rossella Biscotti

n. 79 ottobre-dicembre 2014

Ah, si va a Oriente! Cantiere n.1
Daniela Bigi
n. 78 aprile-giugno 2014

Gli anni settanta a Roma. Uno sgambetto alla storia?
Roberto Lambarelli
n. 77 gennaio-marzo 2014

1993. L’arte, la critica e la storia dell’arte.
Roberto Lambarelli
n. 76 luglio-dicembre 2013


Adrian PaciPer Speculum

Genti Korini
Carrousel, 2007.
Courtesy l’artista

Armando Lulaj
Time out of joint, 2006.
Courtesy l'artista

Con questo articolo diamo avvio ad una serie di approfondimenti sulle vicende artistiche dei paesi dell’Europa centrale con l’auspicio di dare un contributo per una configurazione più pluralistica e dinamica dell’identità europea.

Ten years have passed since the last tragic political and economic events swept over Albania after the fall of the regime, forcing thousands to flee. The country is now undergoing regrowth. Tirana is a city full of energy and creativity, as demonstrated by the colourful urban transformations effected by its mayor Edi Rama. However, the problems remain numerous: building a democracy is an uphill road. During these past ten years, young Albanian artists and intellectuals have, through artwork and cultural expression, been commitedly telling their story, unique in Europe. The ideological and cultural contrasts after the fall of the regime, the difficulty of being accepted outside their own country, and comparisons to the west, are recurring themes in works by artists Anri Sala, Adrian Paci, Sislej Xhafa. Their different forms of expression have in common an iconic force which emerges from the union of reality and symbolism. They are backed by a strict academic tradition of socialist realism and teachings by veteran artists like Edi Hila.
In 2005 Tirana’s fourth biannual art exhibition was cancelled due to lack of funds. Edi Muka, the curator of the event, used the very fabric of the city as a backdrop for the exhibition. Muka and others have recently founded the Tirana Institute of Contemporary Art (TICA), a small, flexible institution that offers a concrete support to artists through an international residency exchange.
Another interesting exhibit in Tirana was the 1-60 Insurgent Space (between 2005 and 2006), curated by Stefano Romano, a series of events by Albanian and international artists, like an “art rave”.
The current situation reflects desire for change. Xhafa, Sala, Paci and the young Armando Lulaj live abroad: in New York, Berlin, Italy. The artists remaining in Tirana, Alban Hajdinaj, Heldi Pema and others lack consistent financial aid from the government and international institutions. Some, nonetheless, express themselves with great strength, like Suela Qoshja. Or with visionary poetry, like Genti Korini. Others withdraw into the shadows, like Gentian Shkurtj, a talented video and electronic artist who hadn’t exhibited in four years.

Translation by Diego Laurenti Sellers


Negli ultimi anni a Tirana si è concentrata un’energia culturale ed artistica che ha dato vita a notevoli eventi, grazie all’azione di giovani artisti e intellettuali albanesi che hanno maturato e messo a punto un modo urgente e reale di fare arte. Figure molto attive che si sono imposte nel panorama internazionale come gli artisti Sislej Xhafa, Anri Sala, Adrian Paci, Flutura e Besnik Haxhillari e il promotore dell’arte a Tirana, Edi Muka. Senza dimenticare il fondamentale supporto dell’attuale sindaco Edi Rama, figura geniale anche se contraddittoria, eletto nel 2000 ed in seguito riconfermato.
Anri Sala, Adrian Paci, il kosovaro Sislej Xhafa hanno vissuto in prima persona gli avvenimenti della recente storia albanese che nemmeno i più fortunati, i più onesti, i più savi... o gli artisti, sono riusciti ad evitare. L’avvento della libertà economica individuale, dopo la caduta del regime nel 1991, anno di un primo gigantesco esodo di trentamila persone, aveva portato l’Albania ad un liberismo selvaggio e all’anarchia, senza nessun controllo né da parte del proprio governo, né da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, che assistevano svogliati, interessati solo al territorio come base strategica. Infine nel 1997 il collasso finanziario costrinse migliaia di albanesi ad un secondo esodo in Italia, ostacolati dal blocco navale italiano nel canale di Otranto che portò, il 28 marzo 1997, al tragico affondamento della “Kather I Rades”.
Le navi pullulanti di persone del 1991 e del 1997 nel canale di Otranto sono immagini indelebili della nostra memoria collettiva. Anche Adrian Paci fuggì in Italia nel 1997 con le sue due figlie piccole e ha dedicato in seguito alcune opere a questa dolorosa memoria, come After the wall there are some walls (2001), un video proiettato su un muro formato da taniche riempite con acqua del canale di Otranto, che ricorda il muro di valige di Fabio Mauri, altro muro della memoria.

Nelle opere di questi artisti sono centrali temi universali come la ricerca di identità, la tenace sopravvivenza di sentimenti primari da parte dell’uomo costretto a vivere lontano dal suo ambiente, la xenofobia, l’emarginazione. Ricordiamo alla Biennale di Venezia del 2001 il video Uomoduomo di Anri Sala, l’immagine di un povero accasciato addosso alle mura del Duomo di Milano al punto da sembrarne parte, che vinse il premio per i giovani artisti.
Sala, Paci e gli altri hanno in comune uno stile e un significato concettuale basato sulla presa diretta della realtà, applicando poi questo spirito al video, alla performance e all’azione, all’installazione.
Sono opere spesso fortemente simboliche, quasi iconiche, ricordiamo l’impressionante scultura piangente in PVC di Sislej Xhafa alla Biennale di Venezia del 2005 (Ceremonial Crying System). Simbolico e “iconico” è anche il video di Adrian Paci Vajtojca, in cui lo stesso Adrian è disteso su un letto da morto in una misteriosa casa rurale, mentre una vera prefica mette in scena il suo “lamento”. Alcune opere di Paci sono dichiaratamente ispirate a Pasolini, ma fanno pensare anche al primo Neorealismo italiano, quando giovani cineasti come Rossellini, terminata la guerra, ancora con i piedi sulle macerie, usavano le loro cineprese e le loro pellicole avariate per sfidare la realtà con l’arte. La coppia degli Haxhillari che vive nel Quebec, marito e moglie, i Due Gullivers, in una performance a Roma (nel collettivo di Diaspora, Roma, Rialto Sant’Ambrogio, giugno 2004 a cura di Sonia Pellétier), applaudivano a lungo, impassibili e in mutande, davanti al filmato, su grande schermo, di un capretto allo spiedo: una dura rappresentazione della “società del consenso”, sempre pronta ad applaudire.

Le istituzioni e le figure politiche importanti che hanno permesso una crescita culturale dell’Albania, e in particolare della città di Tirana, sono state in questi anni l’Accademia di Belle Arti e le riforme del sindaco-artista Edi Rama nei primi anni del suo mandato.
L’Accademia di Tirana ha dato ai suoi allievi nel passato una solida base strutturale, compositiva, fondata sui rigorosi criteri del realismo socialista. Spicca tra gli insegnanti Edi Hila, storico professore che ha permesso ai giovani allievi, tra cui Adrian Paci ed Anri Sala, di affrontare a testa alta il grande cambiamento al momento dell’apertura del paese e di gestire l’irruzione della storia dell’arte contemporanea occidentale che nel 1990-‘91, come se si fosse rotta una diga, entrò violentemente nel loro immaginario. “Edi Hila è stato l’unico tra gli anziani” racconta Adrian Paci “che è riuscito a mettersi in comunicazione con il nuovo mondo artistico occidentale. E questo perché non si è chiuso nel suo studio, come gli altri, a fare quello che aveva sempre voluto fare ma non aveva mai potuto fare. Aveva sì una grande curiosità di sapere quello che era successo nell’arte, ma voleva anche capire quello che stava succedendo in Albania”1.
Alcuni dipinti di Edi Hila sono esposti nell’Accademia di Tirana, insieme a quelli di altri professori, in una mostra permanente di pittura del periodo del regime (1944-1991). Sono tutte opere di maestri conosciuti e stimati. Il professore di Scultura monumentale Vladimir Llakaj, che profugo negli anni Novanta in Italia fu allievo di Fabio Mauri a L’Aquila ed attore in Che cosa è il Fascismo alla GNAM nel 1994, mi ha guidato a riconoscere l’identità nascosta di quei quadri. Io notavo solo il realismo dei temi (il lavoro, le famiglie dei lavoratori) e la mancanza, nei contenuti, di sentimenti individuali come l’amore; composizioni e tecniche, finalizzate ad una comunicazione diretta e senza punti di vista particolari. “Questo quadro di Edi Hila, Donne al lavoro nei campi”, mi ha spiegato il professor Llakaj, “ha una composizione diagonale… può sembrare una cosa da niente, ma una libertà del genere è costata molti problemi all’artista, lungo tutta la sua carriera. Anche questo suo studio di nudo, del 1965, è in apparenza come tutti gli altri esposti qui… ma l’espressione sfuggente della donna dà un significato esistenziale a questa figura, un carattere che era bandito dai dettami del regime. Ci sono artisti che hanno fatto fino a quindici anni di carcere per un quadro fuori dalla norma. Questi limiti non hanno impedito però ad alcuni artisti dell’Accademia di portare avanti una sotterranea ricerca”.

Le opere pittoriche di Hila, uno sguardo trasversale sulla realtà quotidiana, sono entrate, grazie all’aiuto dei suoi allievi, nel mercato europeo e si trovano insieme a quelle di Adrian Paci nella Galleria Francesca Kaufmann a Milano.
Anche il sindaco Edi Rama, che è stato artista e giovane preside riformatore dell’Accademia durante gli anni di passaggio dal regime allo stato libero (1990-‘91), fu professore di Adrian Paci ed Anri Sala. L’esperienza artistica ha dato ad Edi Rama gli strumenti per progettare, come sindaco, a partire dal 2000, la stupefacente colorazione dei palazzi di Tirana, a tinte vivacissime, realizzata anche da artisti internazionali come Olafur Eliasson. Un progetto urbanistico che ha avuto il fine di stimolare psicologicamente gli abitanti di Tirana, dare energia a una città allo stremo delle forze: “A quel tempo avevamo praticamente le tasche vuote e abbiamo deciso che il colore era lo strumento di comunicazione. Non era un lavoro di superficie ma di fondo, un lavoro di comunicazione e partecipazione”2.
Questa operazione ha un precedente nel progetto di colorazione dei palazzi di Magdeburgo nei primi anni Venti dell’architetto espressionista-modernista Bruno Taut. Le motivazioni e lo spirito erano molto simili a quelli della messa in opera a Tirana: economia di mezzi, impiego di un gruppo di artisti per realizzare il progetto, visione utopistica della città3. Un’idea legata alle diverse teorie (estetiche, spirituali, psicologiche, sociali) sul colore applicato all’architettura formulate a partire dal razionalismo neoclassico fino a Bruno Taut, il Bauhaus e a Le Corbusier.
Molte contraddizioni e polemiche circondano quest’opera urbanistica e sono evidenti nel panorama stesso di Tirana. Continui grandi cantieri trasformano la città, e i palazzi colorati di Edi Rama si confondono tra un’edilizia selvaggia che dimostra quanto a Tirana gli interessi privati siano a scapito del bene pubblico.
In economia e in politica vige la legge del più forte. Questo nuoce alla crescita del giovane governo democratico ed incrementa la corruzione in ogni aspetto della vita sociale, politica e naturalmente economica. Sono aspetti che non sono estranei né alla classe al potere del Partito Democratico di Sali Berisha, né a quella del Partito Socialista all’opposizione (capo del Partito Socialista è lo stesso Edi Rama).
Comunque l’applicazione della propria immaginazione sulla città è stata una delle migliori operazioni politiche e culturali di Edi Rama. Grazie a queste prime audaci riforme si è creato un terreno di creatività e di scambio internazionale che ha permesso agli artisti della generazione di Sala e Paci di comunicare con l’Occidente. E ha permesso la realizzazione di altri progetti culturali di grande impatto, come la Biennale di Tirana, frutto della creatività di Edi Muka, considerato il principale promotore dell’arte in Albania e figura di riferimento, come racconta Anri Sala: “I ‘tre Edi’, ossia i maestri Edi Hila, Edi Rama e il curatore Edi Muka sono state le figure più importanti per me”4.
La Biennale di Tirana di Edi Muka, con la collaborazione di Gëzim Qëndro, ex direttore della Galleria d’Arte Moderna, ha avuto finora tre edizioni, a partire dal 2001. Artisti italiani, europei e di tutto il mondo si sono trovati ad esporre e ad operare a Tirana, creando un ponte, metaforico, di comunicazione e fratellanza globale.
Oltre alle diverse partecipazioni italiane e internazionali e agli autorevoli curatori invitati, come Hans Ulrich Obrist, il successo di questa Biennale è stato il fatto di aver dato espressione alle nuove forze intellettuali albanesi. Uno slancio fatto più di azione che di teoria.
La precarietà dei finanziamenti, sia dal governo albanese che dagli altri paesi, ha reso sempre molto difficile lo svolgimento di questa Biennale. Ma Edi Muka e gli altri sono riusciti a fare di questo problema un punto di forza e di significato. Si legge infatti nell’introduzione al catalogo della Biennale del 2003: “(…)Come ci si può aspettare che qualcuno creda in un segnale di risurrezione (come la Biennale certamente è), di collaborazione, speranza e tolleranza, normalità e valori comuni, in un paese crocefisso così a lungo da isolamento, disgrazia, intolleranza, anormalità e provincialismo?”5.
Molto spazio è soprattutto stato dato all’azione degli artisti. Adrian Paci nel 2003 è intervenuto in una sezione della mostra6 mettendo a disposizione generatori di elettricità agli artisti stranieri che, per partecipare alla Biennale, erano stati finanziati dal loro paese. Così facendo ha rimarcato la situazione di emergenza dell’energia elettrica in Albania, che crea continui black out tutti i giorni dell’anno e che nel caso specifico avrebbe disturbato le installazioni che necessitavano di energia. Ed ha ricreato, in ambito artistico, una caratteristica del panorama albanese: quella dei generatori posti vicino alle attività commerciali e nei giardini delle case. Allo stesso tempo Adrian Paci denunciava che la sua partecipazione alla Biennale di Tirana, a differenza degli artisti stranieri, non era supportata da nessun finanziamento. E così gli artisti, pagando a Paci la fornitura di generatori, avrebbero finanziato l’intervento stesso dell’artista alla Biennale.

La Biennale di Tirana ha dato agli artisti stranieri la possibilità di riflettere sulle difficoltà dei propri colleghi albanesi. E di prendere posizione rispetto a problemi che esistono anche in Occidente.
Cesare Pietroiusti che partecipò alla edizione del 2005, intitolata Sweet Taboos 7 e divisa in cinque episodi, ricorda “(…) la sede straordinaria che Edi Muka aveva trovato: i garage e i sotterranei di un enorme edificio in costruzione, destinato a case di abitazione, di cui era finita solo la facciata, una facciata molto pretenziosa di vetro specchiante, che però copriva una situazione tutta un po’ improvvisata. Edi Muka è riuscito a fare la mostra in questo cantiere e questa esperienza a me ha dimostrato la capacità dell’arte contemporanea di inserirsi per davvero nelle pieghe sociali. Questo dimostra anche quanto sia inutile costruire musei per l’arte contemporanea. I luoghi più interessanti sono quelli che tu trovi proprio per caso, nelle pieghe degli spazi dell’architettura, dell’urbanistica (…)”8.
La partecipazione di Pietroiusti consisteva in tre performance allestite all’interno di questo cantiere, scene quasi teatrali a cui lo spettatore assisteva da lontano: un ragazzo seduto di fronte a una bellissima donna senza poterla toccare; un uomo, l’artista stesso, che non dormiva da tre giorni in piedi di fronte a un letto; un anziano tabagista albanese di fronte alle sue sigarette per ore senza poterle fumare. “Era un lavoro ispirato al rapporto tra gli albanesi e l’Italia. Si dice che questa gente sia stata particolarmente attirata, invogliata, dal fatto che vedeva la nostra televisione… questo, almeno noi crediamo, ha scatenato quel desiderio di benessere, di sesso e di consumismo che avrebbe spinto gli albanesi a venire in Italia in condizioni disperate. In fondo la televisione è proprio questo, no? L’immagine di qualcosa che tu desideri senza poterci fare niente. Perché la televisione non te la mangi, non ci fai l’amore, puoi stare lì solamente a guardare. E questo lavoro sullo stare davanti a una cosa che desideri molto senza fare assolutamente nulla è dedicato a questa forma surreale di impotenza che la società dello spettacolo distribuisce a tutti noi”9.
Tra gli artisti albanesi che parteciparono alla terza Biennale di Tirana, ricordiamo Suela Qoshja (1980), che vive e lavora a Tirana. Anche il suo intervento era politico, nell’ultimo episodio di Sweet Taboos, e denunciava la domanda sotterranea di prostituzione da parte dell’Europa occidentale che, a metà degli anni Novanta, produsse il fenomeno dell’offerta delle adolescenti albanesi portate all’estero con l’illusione di trovare il paradiso terrestre. Suela Qoshja ha affrontato questo tabù, rappresentando se stessa in una serie di fotografie in cui impersona l’immagine simbolica di queste ragazze. Il suo sguardo fissa lo spettatore lontano da qualsiasi malizia o falsa ingenuità e ricorda piuttosto quello di un animale sacrificale 10.
Vale la pena di segnalare il lavoro di questa giovane artista che usa principalmente la sua persona e la sua identità. Un atto di coraggio per la precaria identità femminile in Albania. Anche nelle grandi pitture su carta, Supergirl (2004), piene di particolari colorati come fumetti o cartoon, Suela Qoshja rappresenta e proietta sé stessa sullo spazio urbano, come se questo fosse un’emanazione della sua mente e del suo corpo. Una visione ottimistica, quasi futurista, di Tirana: “Io rappresento me stessa insieme alla città che cresce. Io non giudico, ma rifletto me stessa, anche i miei momenti erotici, su tutto ciò. Queste pitture sono piene di dettagli, non c’è punto di vista né proporzioni. Questa figura enorme è Edi Rama, che mi ha ispirata moltissimo, qui c’è un camion che è anche un pub e si chiama Embassy, ricorda un problema che le persone hanno qui, cioè uscire dal paese”11.
La Biennale quest’anno non si farà, a causa dei tanti problemi politici, economici, anche a livello internazionale, che hanno impedito una nuova organizzazione. “Naturalmente noi abbiamo in programma di continuare questa manifestazione in futuro” dice Edi Muka, “ma ora molte Biennali stanno nascendo in giro per il mondo e per questo è necessario che si riconsideri la loro raison d’être, soprattutto a Tirana”12.
Tirana è un luogo in cui la cultura, l’arte sono fuori da un sistema istituzionale. Lo Stato non se ne interessa e nemmeno la municipalità. Edi Rama, molto attivo in passato, è ora impegnato solo nel suo ruolo di uomo politico puro.
La cultura è lasciata all’iniziativa personale di quei volenterosi che hanno l’energia o l’entusiasmo di rimboccarsi le maniche, cercando finanziamenti dalle società private come la AMC (Albanian Mobile Communications, già sponsor della Biennale di Tirana) o da qualche fondo cassa della Comunità Europea.
Di questi interventi indipendenti sono due i più incisivi nella storia culturale contemporanea della città: la serie di eventi artistici nella città intitolata 1/60 Insurgent Space, che ha avuto luogo a Tirana tra il 2005 e il 2006, ideata dall’artista italiano Stefano Romano e il TICA, Tirana Institute of Contemporary Art, un’istituzione creata da Muka con la collaborazione di altri artisti e dello stesso Stefano Romano.
Il TICA è un’istituzione che non ha ancora una sede fissa e si può dire che sia ancora in costruzione. È un progetto molto ambizioso che, una volta avviato del tutto, potrà essere un punto di riferimento per gli artisti di tutto il mondo, interessati a lavorare “nelle pieghe” di una città come Tirana.
Il TICA è la più importante continuazione della Biennale di Tirana”, dichiara Muka, “è un esempio vivente di piccola, flessibile istituzione, che punta ad una profonda interazione tra la scena locale ed internazionale, offrendo, per la prima volta dopo il periodo post-comunista, un reale, consistente e continuativo supporto: residenze per artisti da tutto il mondo, un premio internazionale sponsorizzato dalla AMC Company, grandi mostre internazionali o più piccole per gli artisti locali. Il problema è la fragilissima situazione finanziaria del TICA. C’è una totale assenza non solo del supporto del governo ma, quel che è peggio, di un riconoscimento legale e ufficiale che possa legittimare a lungo termine il suo operato”13.

L’unica manifestazione locale autorizzata che ha una certa regolarità a Tirana è il Premio Onufri, un concorso organizzato dalla Galleria d’Arte Moderna – nel 2006 alla sua XIII edizione –, che però risente dei condizionamenti e delle difficoltà di cui soffrono tutte le istituzioni pubbliche in Albania.
Mentre sembrano essere proprio questi eventi alternativi i momenti in cui si può riflettere sui problemi dell’arte contemporanea, in un paese in cui tutti lamentano la mancanza di un sistema, problema causato dal disinteresse della classe politica e della nuova classe borghese albanese nei confronti di una cultura libera ed aggiornata.
1/60 insurgent space di Stefano Romano è partito da questa instabilità e ne ha fatto un punto di forza e di discussione: “Ero a Tirana per motivi di lavoro (ero assistente di Adrian Paci all’Accademia di Carrara) e stando lì mi sono accorto che mancava tutto: chi organizzava le mostre, gli spazi dove organizzarle, anche se a mio modo di vedere, la città era uno spazio fantastico per fare mostre”14. I
Insurgent space ha portato in giro per Tirana, nell’arco di due anni, eventi di artisti albanesi e stranieri, della durata di un giorno, curati di volta in volta da un critico diverso. “TTante mostre che abbiamo fatto non erano autorizzate… un po’ come dei ‘rave dell’arte’… non chiedevamo il permesso, andavamo lì, le facevamo succedere e poi ce ne andavamo”15.
Ricordiamo, tra le molte manifestazioni di Insurgent Space, Meat shop, intervento simbolico ed incisivo di Alban Muja, nato in Kosovo nel 1980, che coinvolse e chiamò in causa anche la Galleria d’Arte Moderna di Tirana. L’artista invitò un macellaio a vendere carne con un banchetto di fronte alla Galleria. Una semplice piccola azione quotidiana che così enfatizzata dall’artista diventava manifestazione di un problema globale. L’happening si svolgeva pochi giorni prima delle elezioni, durante la campagna elettorale, un momento in cui i politici costruiscono un’apposita “facciata” fatta di promesse per convincere gli elettori. Il macellaio con la sua semplice azione rappresentava l’elettore medio, mentre il banco di carne, dove si vende carne morta, pronta per essere consumata, alludeva alla facciata oscura della politica16.
Molte cose sono cambiate in questi ultimi anni. Nuove esigenze emergono dai lavori degli artisti più giovani e residenti a Tirana e la denuncia di problemi ancora del tutto irrisolti. Gli artisti continuano ad invocare un sistema dell’arte ed allo stesso tempo a lottare contro l’idea di sistema, pur non riuscendo a proporre alternative. Gli artisti maggiori, Anri Sala, Adrian Paci, sono andati via e quelli giovani non trovano punti di riferimento. Lavorano molto con il video, un video che esprime soprattutto rabbia. C’è a Tirana una grande scritta, dipinta su uno dei palazzi di Edi Rama, ad opera di Rirkrit Tiravanija, che sembra riflettere questi sentimenti: These are the things we are fighting for.
La lotta cieca contro il sistema, il disorientamento, erano il motivo dominante dei lavori presentati quest’estate nel Padiglione albanese della LII Biennale di Venezia a Palazzo Malipiero ed a Mestre presso la Galleria Contemporaneo: come nei video Diskovery di Alban Hajdinaj e The Client di Heldi Pema.
All’interno del Padiglione, più compiuta ed efficace era l’installazione Time out of joint di Armando Lulaj (1980), artista espatriato che collabora, tra le altre, con la Galleria Artra di Milano. Pur rimanendo centrale per il giovane artista la lotta al sistema, questa, con più maturità, è diventata indagine. Si ritrova in Lulaj lo spirito artistico albanese, iconico e simbolico, trasferito in un’arte di azione, di modificazione della realtà.
Il video presentato alla Biennale è proiettato su due schermi uno di fronte all’altro, una ripresa fissa di una discarica della periferia di Tirana, una distesa senza fine di spazzatura al cui centro l’artista ha posto un grande parallelepipedo di ghiaccio. Durante la sequenza il ghiaccio si scioglie, mentre gruppi di bambini della comunità nomade, la classe più emarginata e povera in Albania, vanno e vengono per toccarlo, leccarlo e lavarsi la faccia. Intanto su questa marea di immondizia passano sagome in controluce di capre o di camion. Il significato del video è complesso ed inquietante: la comunità nomade rappresenta per l’artista un grado zero del sistema. Partendo da questa considerazione Lulaj osserva le reazioni spontanee di questa gente davanti al ghiaccio, oggetto alieno che si insinua nella loro società elementare e fuori dall’economia. La comunità si lascia pian piano sedurre da questo oggetto e così l’artista riproduce in questa terra desolata, simbolicamente, l’azione del sistema economico globale di penetrare e corrompere la società dei poveri. Sistema negativo, antidemocratico perché in mano a pochi e, come il ghiaccio, a sua volta intrinsecamente corruttibile.
Anche Genti Korini, che a Mestre ha esposto due fotografie, osserva la realtà albanese direttamente, in sé. Accetta la realtà così com’è e questo gli permette di usare un registro onirico senza perdere di vista l’indagine consapevole, come nelle pitture di Edi Hila, di cui è stato allievo. La foto della giostra panoramica costruita a pochi metri dal palazzo condominiale, nel centro di Tirana, coglie l’elemento surreale e giocoso di una città formata da molte comunità e religioni, dove nessuno si meraviglierebbe se qualcuno si affacciasse e dal balcone salisse direttamente sulla ruota.
Il commissario del Padiglione albanese a Venezia, Rubens Shima, è dal 2005 “direttore designato” della Galleria Nazionale d‘Arte Moderna di Tirana e rappresenta ora il volto istituzionale della realtà artistica albanese; una figura molto diversa, culturalmente e politicamente, da quella di Edi Rama ed Edi Muka.
Shima, nato nel 1973, è uno spirito pragmatico, il suo tono è ironico ed amaro: “È molto difficile vivere producendo arte, se non sei inserito in un sistema. Gli artisti qui a Tirana, per vivere, devono avere un altro lavoro e questo limita il loro processo creativo. Chiediamo loro arte di qualità e allo stesso tempo tutto il lavoro è fuori del sistema. E l’arte rimane un’illusione. Noi abbiamo bisogno di una politica artistica. La municipalità non fa niente, si è limitata a dipingere i palazzi. Conosco i bisogni degli artisti. Le mie considerazioni sono fondate sugli aspetti e sui i problemi della vita di tutti i giorni”17.
Queste difficoltà possono in parte spiegare situazioni a Tirana come quella di Gentian Shkurti, artista video-elettronico di talento che non espone da quattro anni. Edi Muka, però, con lucidità ricorda che la creazione di un sistema dell’arte è anche responsabilità degli stessi artisti: “Il problema in Albania è che durante il regime lo Stato sorvegliava, si prendeva cura di tutto e gli albanesi sono stati impostati così. Quindi la maggioranza degli artisti, oggi, è totalmente paralizzata e fa veramente poco per usare le sue capacità di organizzarsi, formare gruppi o movimenti o al limite di occupare spazi, rendendosi in questo modo più visibili”18.




NOTE

1.Testimonianza inedita di Adrian Paci, Milano, maggio 2007.
2. Testimonianza inedita di Edi Rama, Tirana, maggio 2007.
3. Il progetto urbanistico di Edi Rama fu presentato come esempio di “utopia applicata” nella sezione Utopia Station alla 50 Biennale di Venezia. Cfr. Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist, Rirkrit Tiravanija, Stazione Utopia, in Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore. 50esima Esposizione Internazionale d’arte, La Biennale di Venezia, catalogo della mostra, Venezia, 2003, pp. 318-419.
4. Testimonianza inedita di Anri Sala, Dhermi (Albania), luglio 2007.
5. Cfr. Edi Muka, Gezim Qendro, U-Topos, in Tirana Biennale 2, catalogo della mostra, Thessaloniki, Grecia, 2003, p. 12.
6. Cfr. Sebashku-Juntos-Tillsammans, a cura di Edi Muka, Joa Ljungberg, Rodrigo Mellea Lira, Yunekys Villalonga, in Tirana Biennale 2, cit., pp.228-233.
7. Cfr. Bienalja E Tiranes / Tirana Biennale 3, Tabu molisese / Sweet Taboos, Tirana, 10 settembre - 10 novembre 2005
curata da Edi Muka, Gezim Qendro, Robero Pinto, Zdenka Badovinac, Joa Ljungberg, Hou Hanru organizzata dall’Institute of Tirana Biennale.
8. Testimonianza inedita di Cesare Pietroiusti, Roma, giugno 2007.
9. Idem.
10. Bienalia E Tiranes cit., pp.263-265.
11. Testimonianza inedita di Suela Qoshja, Tirana, maggio 2007.
12. Testimonianza inedita di Edi Muka, giugno 2007.
13. Idem.
14. Testimonianza inedita di Stefano Romano, Bergamo, maggio 2007.
15. Idem.
16. Il sito di Insurgent Space, www.1-60insurgentspace.com, è ricco di documenti degli eventi e comunicati degli artisti e curatori delle manifestazioni.
17. Testimonianza inedita di Rubens Shima, Tirana, maggio 2007.
18. Testimonianza inedita di Edi Muka, cit.