Arte e Critica Anno 14 Numero 51 giugno-agosto 2007
L’autore torna ad esaminare la pratica della performance, al centro di un rinnovato crescente interesse, indagando differenze e analogie con le esperienze performative degli anni ’70.
Pubblichiamo una sintesi del suo intervento alla conferenza tenuta al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, in occasione di I Am Making Art - 4 Studies on the Artist’s Body
Odiavamo la parola “performance”. Non potevamo, non volevamo chiamare ciò che facevamo “performance”… poiché la performance aveva un luogo deputato, e quel luogo tradizionalmente era il teatro, un luogo in cui ci si recava come ad un museo.
Vito Acconci(1)
L’osservazione di Vito Acconci riflette esattamente il senso di aleatorietà e ambiguità che, ancora oggi a distanza di quasi 40 anni (2), permea il concetto di performance come forma d’arte, così come anche la sua chiara inclinazione antiistituzionale. Se si usa il termine “performance” per indicare un’azione, un evento, una rappresentazione, una forma di Body Art, un lavoro collaudato – un concerto di Fluxus o un happening – esso potrebbe sostanzialmente riferirsi ad una attività artistica interdisciplinare che generalmente tende a stimolare la partecipazione del pubblico.
L’influenza esercitata dalla performance sin dall’inizio è riscontrabile oggi nelle espressioni artistiche più attuali, negli ambiti del video, dell’installazione, scultura, fotografia, pittura e perfino dell’arte cibernetica. Inaspettatamente, comunque, né la storia dell’arte né il museo(3) sembrano aver voluto o potuto assegnare a questo genere fondamentale lo spazio dovuto, e ciò in netto contrasto con l’unanime riconoscimento conferito, ad esempio, al Minimalismo o all’Arte concettuale.
In un’ottica che riconosce il ruolo chiave che performance e pratiche affini hanno avuto nel corso degli anni ‘60 e ‘70, il nostro programma No lo llames performance/Don’t Call it Performance prende in esame la recente crescita d’interesse rispetto a quell’insieme di pratiche che oggi sono riunite sotto l’ormai noto concetto di “performatività”(4). Qui, un mix di materiale selezionato e operazioni live riguardanti il lavoro di una trentina di artisti fornisce la giusta griglia interpretativa dello stato attuale di questa “idiosincrasia performativa” – benché la pratica della performance si estenda ormai oltre i propri confini verso altre forme d’arte – attirando al contempo l’attenzione verso una serie di affinità e differenze tra passato e presente.
Per comprendere appieno il concetto di performance(5), dobbiamo necessariamente ricorrere al linguista J. L. Austin, colui che nel 1961(6) ha coniato il termine “performatività”, volto a indicare una manifestazione linguistica che non soltanto descrive ma contemporaneamente cambia il mondo, dando luogo a nuove situazioni. In altre parole, si tratta di un’espressione che determina ciò che descrive. “Vi dichiaro marito e moglie” è un classico esempio, in quanto la formula interpreta l’azione nello stesso tempo in cui esprime un nuovo stato dell’essere. Da allora, questo concetto linguistico è stato applicato al contesto dell’arte e della vita, dal momento che esso esplora attività in grado di mutare la realtà esistente. Inoltre, una particolare teoria recente ha fatto grande ricorso al termine “performativo” al fine di fornire un giusto approccio a temi riguardanti sessualità e genere, e la cultura cibernetica lo ha ritenuto ugualmente efficace(7).
Il genere performativo per eccellenza è sicuramente il teatro, e qui – parlando di performance – sono presenti ovviamente vari livelli di teatralità. Secondo molti artisti e critici, la performance non ha in comune col teatro soltanto il rapporto con l’audience: i concerti e gli happening di Fluxus(8) erano anche questione di abilità scenica.
In questo contesto non possiamo fare altro che riferirci al significativo saggio di Michael Fried(9), in cui egli – a proposito del minimalismo – controbatte che l’arte più coincide col teatro più degenera, dal momento che “teatrale”, secondo Fried, è ciò che già sta tra le arti (tra pittura e scultura). Il concetto di teatralità implica anche “un interesse per il tempo, o piuttosto per la durata dell’esperienza”. E quale genere più della performance si è misurata con l’interdisciplinarietà e il fattore temporale!
All’interno del quadro concettuale qui delineato, No lo llames performance/Don’t Call it Performance presenta una serie di azioni, eventi, sculture, video e installazioni che agiscono tanto ad un ampio livello performativo, quanto rivivendo ed esplorando aspetti e strategie associati alla performance tradizionale. Quali sono allora le congruenze e quali le diversità tra le opere attuali e quelle precedenti?
In modo schematico, possiamo identificare i seguenti tratti:
L’artista di oggi lavora con l’intento di fare un’arte pubblica(10), che ha luogo cioè davanti a un pubblico o in un luogo pubblico.
L’azione è all’insegna della versatilità, può essere riprodotta in diversi ambienti e alla presenza di diversi tipi di pubblico.
Il tono dell’opera si è spostato su un piano più intimo, personale e fondamentalmente moderato(11).
Perdita di gerarchia: l’azione dal vivo non è più valutata automaticamente sulla sua registrazione.
Sono disponibili una grande quantità di informazioni scritte, registrate e/o fotografiche(12).
Il remake di performance storiche non è visto come una mera riproduzione dell’azione originale, è diventato una nuova forma d’arte(13).
Alcuni aspetti non sono mutati: lo sguardo critico sulla società è acuto come sempre.
La performance è ancora l’unica disciplina nell’ambito delle arti visive a offrire un prodotto diretto, vivo, spontaneo, senza ricorso a mediazione.
Tagliata fuori da media e istituzioni, la performance è ritornata con tutta la sua forza. O meglio sarebbe più preciso dire che non ci ha mai lasciati del tutto; il concetto di performatività – fondamentale per i parametri secondo cui sono state istituite nuove discipline come video(14), videoinstallazione o arte cibernetica – ha inoltre incluso vecchi insegnamenti quali pittura, scultura e fotografia, con effetti buoni e rinvigorenti. Tanto meno dovremmo trascurare il ruolo guida della performatività in questioni di primo piano che hanno a che fare con genere, sesso, razza e in particolar modo la sua vicinanza con le istanze delle artiste donne(15).
Per molti artisti, il corpo continua ad essere la più accessibile e malleabile delle materie, con capacità di innescare discorsi critici diretti su politica e vita di tutti i giorni. Nel nostro contesto postmoderno, il corpo oscilla tra una estetica deliberatamente low-tech e retrò (anni ‘60 e ‘70) e un ambiente cibernetico regolato da computer, microfoni, monitor e live feed. Può darsi che la performatività si manifesterà, quanto prima, in una fusione di “reale” e “virtuale”, abbandonando definitivamente l’agognata immediatezza dell’ “esperienza diretta”.
NOTE
1. Citazione tratta da Michael Rush, New Media in Late 20-th Century Art, 1999, Thames & Hudson Ltd, Londra, p. 52.
2. Sebbene alcuni critici collochino la nascita della performance intorno alla metà degli anni ‘60, sotto l’egida di Fluxus ed Happening, in realtà già nel 1955 il gruppo giapponese Gutai teneva vere e proprie “performance” in spazi pubblici, concepite come prolungamento del gesto pittorico.
3. La bibliografia rimane carente e le mostre di o sulla performance nei musei più accreditati sono state poche e tardive.
4. Negli ultimi anni, interessanti dibattiti si sono sviluppati intorno all’aggettivo “performativo” e al nome derivato “performatività”, tesi a indicare una serie di interpretazioni che trascendono il campo dell’arte per trovare nuova rilevanza in termini sociali e politici.
5. In spagnolo, performance è un neologismo che si riferisce esclusivamente alla pratica artistica contemporanea piuttosto che a quella drammaturgica o musicale. In inglese, più ampiamente, i termini con radice perform- hanno attinenza con tutte le funzioni e le operazioni aventi come riferimento un testo scritto, e a seconda del contesto possono significare di tutto, dall’interpretare una parte a soddisfare una aspettativa, o portare a termine un’impresa, ecc…
6. John L. Austin, How to Do Things with Words, Cambridge, Massachussetts, Harward University Press, 1975.
7. Cfr. P. Lichty, The Cybernetics of Performance and New Media Art, http://www.voyd.com/hrvat, dove, partendo dal presupposto che tutta l’arte interattiva è per sua natura performativa, è tuttavia evidenziata la principale differenza con la performance tradizionale: la mancanza di sincronia col pubblico.
8. Per una discussione più approfondita riguardo l’influsso pionieristico di Fluxus sulla pratica della performance, cfr. Kristine Stiles, Between Water and Stone, catalogo della mostra In The Spirit of Fluxus, Walker Art Center, Minneapolis, 1993.
9. Michael Fried, Art and Objecthood, “Artforum” 5, 10 (estate 1967), p. 21.
10. Non dovremmo dimenticare che molte pièce tradizionali avevano luogo in location isolate, alla presenza di un pubblico sparuto o quasi inesistente, come per Parallel Stress (1970) di Tennis Oppenheim, Jones Beach Piece (1970) di Joan Jonas, Unicorn (1971) di Rebecca Horn, le serie Siluetas (1977) di Ana Mendieta, o Shoot (1971) di Chris Burden. Altre avevano luogo in studio: From Hand to Mouth (1967) o Contacts (1971) di Vito Acconci erano eseguite senza prevedere un pubblico.
11. Ci si potrebbe chiedere a questo punto cosa ne è stato della combattività socio-politica di quei giorni. Forse il messaggio politico, spesso anarchico, si è fatto più pacato e meno magniloquente: gli artisti non si considerano più campioni in mega-cause che hanno a che fare con razza o sesso. Un’altra differenza evidente è che oggi pochi artisti sperimentano imprese fisiche estreme; al contrario, il disagio espresso torna a essere essenzialmente mentale.
12. Si veda RoseLee Goldberg, Performance, Live Art since the 60s, 1998, Thames & Hudson, Londra, con introduzione di Laurie Anderson. Anderson ricorda come a molti artisti non interessasse conservare testimonianza scritta o registrata dei propri lavori; lei stessa non si sentiva spinta a registrare le sue performance, in vista delle alterazioni e danneggiamenti cui esse andavano incontro nel tempo. Oggi, il documento video o fotorafico è spesso più apprezzato della stessa azione dal vivo.
13. Così, ad esempio, in un’intervista con Joan Simon (“Scenes and Variations: An Interview with Joan Jonas” in Joan Jonas Performance Video Installation 1968-2000, 2001, Galerie der Stadt Stuttgart, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit, pp. 25-35), Joan Jonas ha dichiarato di recuperare frammenti di sue vecchie performance al fine di creare nuove installazioni. Anche Marina Abramovich è nota ultimamente per le sue rielaborazioni di nuove versioni di performance storiche, sia sue che di altri artisti; un altro esempio sarebbe la libera e alquanto ironica nuova messa in scena nell’ambito della mostra Fresh Acconci, 1995, di Mike Kelley e Paul McCarthy.
14. La storia del video e della videoinstallazione non può essere del tutto compresa senza i preziosi contributi di performer quali Vito Acconci, Chris Burden, Joan Jonas, Bruce Nauman, Nam June Paik, Ana Mendieta e Dara Birnbaum.
15. Fortunatamente, la storia del video e della videoinstallazione viene riscritta da donne come RoseLee Goldberg e Amelia Jones; ciò vale come tentativo di difendere la condizione raggiunta grazie a tante artiste donne che, al di là delle loro critiche femministe, hanno reso un eccellente contributo allo sviluppo degli stessi media. Tra le altre, sono da ricordare le suddette Joan Jonas, Ana Mendieta e Laurie Anderson così come Adrian Piper, Carolee Schneemann, Marina Abramovich, Yoko Ono, Rebecca Horn, Valie Export, Perry Bard e Yayoi Kusama.