Juliet Anno 28 Numero 137 aprile-maggio 2008
INDIA & INDIA
– Roma Auditorium + Ex-Gil – Milano
Dopo l’ondata cinese, che ha fatto emergere nomi interessanti come Yang Fu Dong e creato un fenomeno di migrazione culturale a Shangai, è ora la volta dell’India.
Insieme, e in un breve arco di tempo, tre o quattro mostre si sono susseguite in situazioni di diversa importanza. Prima alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, poi allo Spazio Oberdan di Milano, quindi all’Auditorium di Roma e ancora in gallerie private come Sozzani e Marella a Milano.
La mostra all’Auditorium ha caratteristiche interessanti: è ideata da un curatore indiano trasferito a Parigi. Questo permette di vedere un’ottica che è insieme tutta dentro l’arte contemporanea ma anche di rintracciare idee più legate alla “tradizione culturale” indiana. Ma quale tradizione? Esiste veramente una possibilità di utilizzare i linguaggi dell’arte contemporanea fuori della sua struttura e dei suoi segni?
Le mostre finora viste non rispondono a quest’interrogativo che rimane però alla base del più vasto discorso del sincretismo culturale e di quella logica di emancipazione universale che tante volte è emersa nell’arte moderna.
Molti degli artisti più interessanti utilizzano le forme (di modello occidentale) dell’installazione oggettuale, del riscontro mediatico, dell’uso di fotografia e video, declinati in modi diversi.
Le tematiche affrontate sono quelle già in atto in occidente: emancipazione femminile, ridefinizione del “gender” maschile-femminile, ricognizioni di spazi urbani come spazi culturali e psicologici.
Si ocupa di gender Tejal Shah in “Composite layout”, videoinstallazione a due canali dove volti maschili si ridefiniscono come femminili e viceversa attraverso cerimonie di rasatura e di cosmesi. Subod Gupta, sicuramente fra i più interessanti, lavora sugli oggetti quotidiani e di massa e li fonde in metallo, rendendoli eterni e monumentali. Oppure utilizza il video, come nell’originale e molto forte “Pure02”, dove una doccia iniziata innocuamente con acqua si trasforma in fango e l’uomo e l’intero spazio vengono ricoperti di una densa coltre di materiale di scarico, come una denuncia del degrado e della povertà ancora presenti nel paese. Si attaccano, infine, i tabù e le proibizioni come la sessualità femminile nel video “Head hand” di Sonia Kurana, dove una mano femminile accarezza iterativamente un uomo nudo.
I punti forti delle nuove svolte sociali e psicologiche sono, quindi, tutti rappresentati e l’arte contemporanea in India è sicuramente “contemporanea” alla sua controparte occidentale.
Mentre nuovi e significativi autori si affacciano sulla scena d’arte attraverso l’avvicinamento delle culture “globali”, si crea però il dubbio che quanto sta avvenendo sia, prima e soprattutto, un’annessione da parte dell’occidente di fresche forze espressive e poi una partecipazione da parte delle culture asiatiche.
Non sarà sempre così e, forse, a breve termine, si creeranno altre e necessarie ibridazioni e poi nuove e più autoctone forme espressive, ma per ora sembra esistere un solo linguaggio capace di esprimere il contemporaneo di una società globale: il linguaggio della frammentazione e del “caos quotidiano” che viene prodotto nell’Occidente storicamente industrializzato.
GREGORY CREWDSON
– Palazzo delle Esposizioni – Roma.
Una poesia di Bertolt Brecht dice: “Chi ride, ancora non conosce le terribili nuove…” La frase minacciosa si adatta benissimo al lavoro di Crewdson che, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, propone una retrospettiva di estremo interesse e fascino.
Il focus del lavoro di Crewdson è il “perturbante” da Freud in poi attraverso il Surrealismo (naturalmente) e attraverso l’immagine straniata contemporanea. Pur essendo assolutamente aggiornato, il suo lavoro ha una particolare dimensione “anacronistica”.
Sono ritratti o rappresentazioni di suburbi moderni ma l’ottica sembra collocata in una riflessione anche visiva al passato.
Dal suo inizio in bianco e nero la scelta è per lo scontro fra realtà normale ed evento straordinario è il modo d’operare del fotografo.
Ma “fotografico” è da mettere fra virgolette perché la volontà classicamente documentaria della fotografia non compare e il suo lavoro si riallaccia all’ambito della foto d’arte. Nella mostra, le foto in bianco e nero che rappresentano i segni misteriosi (e artificialmente ricreati) che nelle riviste dell’eccentrico sono presentati come lasciati da astronavi marziane, UFO e visitatori da ogni possibile “realtà aliena” e depositata nel subconscio di massa. L’accurata ricostruzione di questa pseudo-realtà, frutto parziale dell’idea postmoderna della realtà come frutto della riproduzione (artificiale) della realtà stessa, nega il presupposto di prova-del-vero dell’immagine fotografica.
Ogni foto è sottoposta alla falsificazione dell’immagine cinematografica attraverso i suoi stessi procedimenti: luci artificiali, filtri d’immagine, alterazioni di luci e colori e ancora ritocchi digitali di vario tipo. Ritocchi poco visibili all’inizio, dato il carattere dichiaratamente cinematografico e l’uso di sistemi di illuminazione che rendono scenografici gli spazi. Ma diventano poi molto evidenti nella serie degli insetti, dove gigantesche farfalle e falene si posano inquietanti sui vetri delle finestre. Oppure, nella calma ingannevole di un giardino, le stesse farfalle si accumulano morte, o più platealmente sciami di insetti ricoprono resti animali in decomposizione. Dietro la sicurezza del suburbio ben ordinato si accumula tensione? È evidente il richiamo a David Lynch e alle sue (troppo) rassicuranti costruzioni visive dove di colpo le superfici si crepano.
Se tranquillità non è, come pensiamo, il momento della riflessione e della serenità psicologica, allora la “serenità” rappresentata è una forma di depressione allo scoperto che si riflette dalle persone alle cose e viceversa. Allora, il ritocco digitale si evidenzia per la sua caratteristica di scontro stridente fra il massimo della realtà e il massimo dell’artificialità.
Le terribili nuove sono sempre fuori scena, o prima o dopo lo scatto. Ma non è il soldato spagnolo che cade (e muore?) di Capa, dove la pallottola è stata sparata “sicuramente” prima. Sono ritratti di “incidenti dell’anima” dove tutto il peggio può essere successo prima o dopo. I modesti interni suburbani, le piccole case circondate da prati verdi e poi da altre case simili diventano una lente d’ingrandimento di eccessiva precisione (si vorrebbe una macchia sulla lente che permetta un necessario “blurring” della realtà).
Gli sguardi dei vari personaggi si perdono su questi incidenti interiori che sembrano a loro stessi essere misteriosi. Il narrativo, come si è detto altre volte, si è insinuato dappertutto. E il carattere lievemente anacronistico dei personaggi presi come comparse, a volte attori, fa a pensare al cinema degli anni ‘50, al melodramma di Douglas Sirk, ai serial televisivi, ma senza nessun compiacimento verso il gusto del kitsch, verso l’ironia complice sulle debolezze della piccola borghesia. La “cosa in questione”, la vita, è cosa troppo seria per essere messa in ridicolo.
“SISTEMI EMOTIVI”
– Palazzo Strozzi – Firenze
Inaspettatamente e in un luogo non sospetto, l’antico e venerabile Palazzo Strozzi, si apre uno spazio dedicato al contemporaneo e si apre con una mostra basata sui nuovi media.
Video e multimedia si confrontano e su un progetto che si vuole collocato nello spazio emotivo, nei sistemi emotivi.
E tanto peggio per chi continua a identificare l’arte digitale con dimensioni algide, hi-tech e “non-emotive”.
Un video di Bill Viola, “Observance”, rappresenta l’emozione spirituale rivivendo i classici della pittura rinascimentale.
Una folla di persone si affaccia, una alla volta, a guardare qualcosa. È una variante, fra le molte, dei “ploranti” delle crocifissioni rinascimentali da cui Viola trae motivi e contenuti da diversi anni.
I “ploranti” sono persone che guardano la morte, non necessariamente di Cristo, ma la morte di un essere umano e forse la loro, e in questo trovano riflessione spirituale.
L’iconografia cattolica è diventata nei suoi ultimi lavori una ricerca del confine fra vivente e non vivente, fra il ricordo e la presenza. Ma anche di rappresentazione del dolore che questa separazione vuole.
Maurice Benayoun in “Emotional traffic, e-traffic Mix Map” porta l’ambizioso progetto di Viola, misurare i sentimenti, a livello planetario. Attraverso un software che scansiona i termini relativi alle emozioni che passano nelle domande poste sulla rete. I dati vengono poi utilizzati per riempire una topografia che nazione per nazione rappresenta il flusso nella rete e la rappresentazione dei sentimenti stessi come una cartografia del sistema nervoso.
“Glad”, “Felice”, “Nervous”, “Nervoso”, “Hopeful”, “Pensoso”, sono fra i termini che rappresentano i sistemi emotivi nel lavoro di Benayoun.
Le definizioni testuali aprono il vasto campo delle definizioni epistemologiche ma anche delle realtà di collegamento all’interno della rete telematica e percettiva e concettuale di cui stiamo indagando oggi le possibilità comunicative e espressive.
La rete è rappresentata così come un sistema nervoso supplementare in grado di dialogare con gli altri linguaggi comunicativi del corpo e nello stesso tempo capace di esporsi e di rendersi visibile al pianeta stesso e ai suoi abitanti, come un gigantesco “Indicatore di coscienza”.
L’esibizione in parte metaforica e in parte reale di un interno emotivo che diventa esterno e si espone allo sguardo della maggioranza diventa l’equivalente della presenza espositiva delle antiche chiese, tornando a Viola, dove appunto il sentimento religioso veniva descritto nelle sue valenze iconografiche ed emotive.
Collocare lo spazio emotivo in modo nuovo al centro dell’indagine e della rappresentazione culturale moderna è uno degli obbiettivi espressi da tempo dall’arte digitale.
E, in questo senso, il lavoro di Benayoun cerca di relazionare il concetto di emotività (privata) al concetto di sentire pubblico.
Questo ampliarsi della “rete emotiva” ingloba le tecnologie di comunicazione in un più vasto strutturarsi di interrelazioni fra corpo, mente, tecnologie.
Il lavoro di Benayoun è il risultato di un lungo percorso d’indagine che ha attraversatole tematiche dello spazio, della connessione, della connettività, del rapporto attraverso lo spazio. Dallo spazio della comunicazione alla comunicazione dello spazio emotivo il passaggio è forte.
Forse attraverso questo sarà possibile uscire dalla “deep sorrow” che sembra ingombrare e deprimere tanta parte dell’arte contemporanea.
Lorenzo Taiuti
md3169@mclink.it