L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Juliet Anno 28 Numero 139 ottobre-novembre 2008



Legnaghi e Morellet

Irene Stucchi

Intervista



Art magazine


Sommario
Ottobre 2008, n. 139

* Copertina di Cheri Samba

* Intervista a Luigi Ontani, di Luciano Marucci

* Aldo Damioli, di Roberto Vidali

* “Le Marche”, di L.Marucci, 2° puntata

* Legnaghi e Morellet, di Irene Stucchi

* “Ostròpicos”, di Emanuele Magri

* Intervista a Gabriele Turola, di Roberto Vidali

* Galleria Torbandena, di Roberto Vidali

* Gelitin, di Cristina Romano

* “Strappi”, di Dino Sileoni

* “Pigozzi and the Paparazzi”, di Matthias Harder

* Rubrica di Vegetali Ignoti

* Rubrica di Angelo Bianco

* Notiziario Spray
ecc., ecc.

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Adrian Paci
Maria Vinella
n. 173 giugno-luglio 2015

Case chiuse, corpi aperti
Roberto Borghi
n. 172 aprile-maggio 2015

Yang Xinguang e la materia
Sara Bortoletto
n. 171 febbraio-marzo 2015

Eugenio Re Rebaudengo
Giulia Bortoluzzi
n. 170 dicembre-gennaio 2015

Biennale Architecture
Gabriele Pitacco Marco Gnesda
n. 169 ottobre-novembre 2014

Biennale Marrakech
Emanuele Magri
n. 168 giugno-luglio 2014


Igino Legnaghi
Tappeto volante per due 2008
ferro, cm 150x500

Igino Legnaghi
Angolo a tutto sesto2008
ferro, cm 150x800x800

François Morellet
Lamentable blanc 2008
neon bianco, cm 640x400x200

Villa Pisani Bonetti, a Bagnolo di Lonigo, ospita la doppia mostra personale di Igino Legnaghi e François Morellet, due tra le personalità più rappresentative dell’epoca contemporanea. Con questa mostra prosegue il progetto Arte Contemporanea a Villa Pisani, coordinato da Luca Massimo Barbero e curato da Francesca Pola, che ha visto intervenire nel 2007 gli artisti Nelio Sonego e Michel Verjux.
Abbiamo incontrato i due artisti, con i quali abbiamo discusso della loro esperienza di confronto e dialogo con l’imponente contesto architettonico cinquecentesco.

Che cosa significa per te “intervenire” in un contesto architettonico straordinario come quello di Villa Pisani, suggestiva opera giovanile del Palladio?


I.L.: Significa sentirsi vicino in pari misura al presente e al passato. Più vicino all’Avanguardia, però con “l’esperienza” a disposizione e in grado di aiutare l’utopia.

Confrontarsi con la Storia è un’operazione complessa, in particolare in ambiti come l’arte, dove il linguaggio espressivo è sensibilmente cambiato nel corso del tempo. Come sei riuscito a stabilire un dialogo con il passato e ottenere dal confronto con esso dei risultati armoniosi?

I.L.: Nella storia dell’arte ci sono le suggestioni più importanti: nell’architettura classica, nel Quattrocento italiano, cerco e trovo forme/sculture appropriate al contesto in cui mi preparo a intervenire.

Spesso ricorre il nome dell’architetto Andrea Palladio, dopo Vitruvio e Leon Battista Alberti, quale fondamentale fonte d’ispirazione per il tuo fare creativo, in particolare per il tuo amore per il rigore geometrico, la proporzione e la nitidezza delle forme. Con quali dei tratti caratteristici dell’opera del grande architetto hai scelto di relazionarti?

I.L.: Le linee curve o irregolari, gli angoli/spigoli hanno sempre accompagnato il mio lavoro. Con i materiali e la tecnologia contemporanea sembra si “sistemi” il tutto.

L’opera Omaggio a A. P. riprende due elementi architettonici fondamentali non solo per Andrea Palladio, ma per tutta l’architettura: l’arco a tutto sesto e l’angolo retto. Essi sono ricollocati in uno spazio fisico che non è il loro, lontani dall’usuale impiego che ne viene fatto. Che stimolo hai voluto dare al visitatore attraverso questo effetto di straniamento?

I.L.: Il modulo per A. P. è come la colonna sonora di un bel film... percorre sapientemente tutta la classicità e la recupera anche criticamente.

La grande opera in quattro elementi, “Angolo” a tutto sesto che occupa il giardino posteriore della villa, mette il visitatore nella condizione di poter godere di una fruizione plurisensoriale della stessa, penetrando nel suo spazio interno, vivendo un’esperienza tattile, di coinvolgimento fisico, oltre che visiva. Cosa hai voluto fosse sollecitato nella percezione del visitatore?

I.L.: Il visitatore che entra nello spazio/scultura diventa complice dello scultore, entrando, toccando la scultura, partecipa e si compiace.

Continuando la “visita”, proposta dai tuoi interventi nel giardino della villa, troviamo i due elementi in ferro, adagiati ciascuno su un lato dell’albero secolare sul fianco sinistro dell’edificio, quali “segnali” della presenza dello stesso. Perché hai scelto di evidenziare questo elemento naturale nel percorso ideale che proponi al visitatore? Quale rapporto esiste tra la monumentalità della natura e quella della tua scultura?

I.L.: L’uomo osserva, non imita, la natura e vi si accosta come natura intelligente. Appoggia i piedi per terra, cammina e incontra forme che la luce modifica e restituisce integre.

Le opere nelle sale al piano nobile della villa sembrano invece dialogare con gli elementi interni, quali porte e finestre, generando un effetto di affascinante armonia dovuto all’accostamento di materiali antichi quali il legno e il calcestruzzo e l’industriale anticorodal anodizzato. Come sei giunto alla scelta di questo materiale per le tue sculture? Si può dire ancora una volta che esso influisca sulla percezione del visitatore che nonostante la diversità dei materiali, ha una visione di globale integrazione dell’opera con lo spazio circostante?

I.L: L’oggi converte molti materiali inediti in scultura attraverso la sperimentazione e la loro realizzazione. Le mie fonti abitudinarie vanno dal ferro, caldo e originario, all’anticorodal, materia nuova e mai toccata. Le mie sculture non conoscono tattilità, ciò nonostante la loro intrinseca costituzione conferisce loro caratteristiche superficiali del tutto personali.

Che cosa ha significato per te la possibilità di “intervenire” in un contesto architettonico straordinario come quello di Villa Pisani?

F.M.: Prima di rispondere precisamente alla tua domanda riguardo il mio intervento (oh, che temerario!) su Villa Pisani, vorrei provare a definire come considero in generale questo tipo di “lavoro”. Prima di tutto non amo la parola “lavoro”, che non uso abitualmente per parlare della mia attività. Allora “intervento”? Peggio ancora!
In francese il senso primo del termine è niente meno che “prendere parte a un’azione nell’intento d’influenzarne lo sviluppo”. Ti rendi conto! Povero Palladio! Certo resta il fatto che si tratta di un intervento effimero... Resta un altro vocabolo impiegato correntemente, “integrazione”, che ha come sinonimi assimilazione, fusione, unificazione...
È una posizione d’immensa modestia di fronte ad architetture senza interesse (con le quali ho spesso a che fare) o d’immensa presunzione quando l’architettura che mi accoglie è come quella di Villa Pisani. No, piuttosto posso dire di fare delle strizzatine d’occhio gioiose e dispettose, o se vuoi, direi che faccio il solletico.
Hai notato che è possibile provocarsi piacere senza aver bisogno di un compagno? Ma sì! Ebbene, è invece impossibile provocarsi il riso o anche solo il sorriso facendosi il solletico da soli. Perciò gli architetti che hanno voglia di far sorridere la loro architettura, non hanno che da rivolgersi a me. Per gli architetti morti troppo presto per potermi invitare, come il Palladio, mi prendo da solo la responsabilità.

Osservando la perfetta costruzione architettonica della loggia palladiana il nostro sguardo è attratto da un segnale luminoso, l’opera Azzurro pallido Palladio, che attira la nostra attenzione “sottraendola” alla struttura in pietra, senza inganno, parlando lo stesso linguaggio di lineare purezza geometrica. Come hai “disintegrato” l’architettura allo stesso tempo integrandola? Come hai stabilito un dialogo con il passato, ottenendo dal confronto dei risultati armoniosi?

F.M.: Innanzitutto bisogna osservare che non ho toccato l’architettura, ho fatto un semplice segno visibile solo in penombra e a condizione che venga azionato un interruttore. Questa curva frammentata disturba la simmetria perfetta richiamando i tre archi della loggia e la finestra termale della facciata posteriore. E poi è anche una risposta orizzontale alla bella curva verticale di Michel Verjux.
Penso che queste due opere vogliano essere prima di tutto della nostra epoca, utilizzano gli elementi più elementari della geometria: cerchi, archi di cerchio; elementi, come d’altronde la stessa geometria, immateriali, che non esistono se non grazie a una luce artificiale. Michel e io apparteniamo a quella corrente artistica i cui capostipiti sono il gruppo De Stijl, il Bauhaus, l’Arte Concreta, il Minimalismo e ovvia-mente anche diverse personalità individuali. Penso che i punti comuni siano il rifiuto per le grandi correnti, il Romanticismo, l’Espressionismo, il Surrealismo e un’attrazione di qualcuno (tra i quali io) verso Dada. I nostri valori mi sembrano essere vicini al Rinascimento, e al Palladio in particolare.

Un armonioso aggrovigliarsi di curve di luce, l’opera Lamentable blanc, è installata nel salone del piano nobile. Anche qui l’osservatore non può fare a meno di posare lo sguardo sull’opera, che occupa esattamente lo spazio dove converge l’intera linea architettonica interna dell’ambiente. Come hai inteso sottoli-neare maggiormente la spazialità del salone?

F.M.: Il gusto per la nitidezza, per l’equilibrio, per la leggerezza, per la chiarezza e il disgusto per Dio, il Diavolo e il dramma. È un po’ per questo, penso, che il no-stro intervento sia in grado di stuzzicare “armoniosamente” Palladio. Quanto al mio Lamentable nel grande salone, lui non è né discreto, né “dispettoso”, ma è effimero e dunque può permettersi tutto. Questo cerchio di neon diviso in otto elementi, dei quali una metà pende, mentre l’altra si riversa sul pavimento, è un falso dramma, sicuramente spettacolare, ironico e luminoso, e che di fatto valorizza per contrasto il magnifico spazio del salone centrale.

Proseguendo il percorso della mostra, si giunge alle cantine, dove lo sguardo è catturato dalla forza e dalla vivacità della luce, con la quale giochi “stuzzicando” la quieta e buia struttura cinquecentesca. Cosa hai voluto risvegliare nei sensi di chi osserva?

F.M.: Nelle due opere del piano inferiore mi sono divertito a fare il contrario di quello che avevo fatto con le due grandi opere del piano nobile, installate in modo che si possano osservare da diversi punti di vista. Invece in entrambe le cantine, lo spettatore si trova bloccato in una prima sala, alla quale ne seguono in fila altre due, in fondo all’ultima di queste ho installato rispettivamente due miei neon, tra loro diversissimi. Da una parte, con un neon rosso del 1972 composto da una trama di quattro neon verticali e una trama di quattro neon orizzontali sovrapposte e lampeggianti secondo due ritmi diversi, è come se desiderassi essere aggressivo.
Dall’altra parte, l’istallazione noendneon del 1990, che ho esposto spesso, costituita da una ripartizione regolare e infinita di rette di neon blu che ricoprono il suolo (e talvolta i muri), è calma e riposante. Per chi ha fantasia non è vietato vedere in tutto questo un’evocazione del fuoco e dell’aria o dell’inferno e del cielo... o qualsiasi altra cavolata.

Nel tuo fare creativo l’ironia ha sempre avuto un ruolo fondamentale, in particolare nella scelta del titolo delle opere, quasi a sottolineare il potere performativo della parola che è in grado di farsi atto creativo. Un titolo come Azzurro Pallido Palladio, gioca ad esempio su di un iperbato, sfruttando allo stesso tempo un’ironica ambiguità interpretativa. Qual è il rapporto tra parola e creazione nella scelta dei titoli delle tue opere?

F.M.: Per quanto riguarda i titoli delle mie opere, li ripartirei in tre periodi: fino al 1952 utilizzavo sia Senza titolo, sia Pittura, e questo perché trovavo troppo presuntuoso e serio dare titoli. Dal 1953 al 1980 circa, mi piaceva che il titolo desse delle precisazioni sul sistema impiegato per la creazione dell’opera, cosa che avrebbe permesso a tutti quelli che non potevano acquistare il quadro di realizzarlo da sé.
Con il passare del tempo, l’aspetto provocatorio del “do it yourself” mi è sembrato ormai logoro, finiva per essere solo un titolo noioso. Allora dopo il 1980 e fino a domani, ho trovato sempre più indispensabile che il titolo mostrasse il mio distacco dai miei esercizi matematici. Ho cercato di trovare titoli che s’ispirassero a commenti denigranti che avrebbe potuto fare uno spettatore stupido e cattivo come La Gitane, Geometree, Relâche, p Rococo, Géométrie dans les spasmes, Débandade, néon pleureur, Décrochage, Lamentable, etc... Mi appassionano molto anche i terribili palindromi come no end neon, Senile lines, così come tutto quello che non può essere serio, poetico, ispirato.