Urban Anno 8 Numero 73 dicembre 2008
Due blocchi antagonisti. Due modi di vedere il mondo. Due estetiche contrapposte. Alla guerra fredda non è sfuggito nemmeno il design. Anche se talvolta i punti di contatto stupiscono più delle distanze
C’era una volta la guerra fredda. Le Superpotenze erano ancora Super, la fantascienza era in bianco e nero, le cagnoline volavano nello spazio, i computer erano grandi come armadi, i satelliti potevano chiamarsi Sputnik e le missioni Apollo. Capitalismo e Comunismo, Stati Uniti e Unione Sovietica, CIA e KGB, football americano e hockey su ghiaccio, cirillico e slang, Pravda e New York Times. Due idee di mondo e di modernità, distinte e contrapposte, che mai come allora lo saranno più. Due traiettorie culturali, sociali ed estetiche talvolta convergenti, spesso agli antipodi, sempre in parallelo. Due blocchi ideologicamente e politicamente molto differenti che per decenni si confrontarono quotidianamente senza mai veramente affrontarsi, ma nemmeno mai perdersi un minuto di vista. Due entità che per un lungo periodo tennero sotto scacco tutto il resto del mondo grazie al deterrente atomico che gli uni o gli altri avrebbero potuto scatenare con i medesimi catastrofici effetti sulla parte avversa o, peggio ancora, sull’intero pianeta: Booooom!
Fortunatamente il diabolico pulsantino rosso nessuno mai lo schiacciò e tutto ciò rientra ormai nelle pieghe della Storia, non solo quella che si dovrebbe abitualmente studiare sui testi scolastici, ma anche dell’Arte, dell’Architettura, del Costume e del Design. Lo dimostra la splendida mostra Cold War Modern: Design 1945-70 in scena al Victoria and Albert Museum di Londra fino all’11 gennaio 2009 (ma sbarcherà in Italia, al Mart di Rovereto, dal 28 marzo al 26 luglio) che per la prima volta affronta questo lungo e complesso periodo proprio attraverso le opere di creatività, ingegno e cultura popolare che scaturirono dal clima psicologico ed emozionale innescato da esso (sia a Est sia a Ovest). Dai film di Stanley Kubrick ai dipinti di Robert Rauschenberg, dal design di Dieter Rams a quello di Charles e Ray Eames, dall’architettura di Buckminster Fuller alla microvettura a tre ruote Messerschmidt Kabinenroller KR200 (disegnata dall’ingegnere aeronautico Fritz Fend), dalla macchina da caffè di Giò Ponti alle opere pop di Richard Hamilton, fino alla Garden Egg Chair di Peter Ghyczy. Più di 300 lavori provenienti da Stati Uniti, ex Unione Sovietica, Germania Est e Ovest, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Italia, Francia, Cuba e Regno Unito, a testimoniare in modo sorprendente come gran parte dell’immaginario (collettivo e individuale), dal dopoguerra fino almeno all’allunaggio, fosse in gran parte caratterizzato da ansietà e timore ma allo stesso tempo anche da sentimenti opposti quali speranza e ottimismo nonché da un’evoluzione tecnologica senza precedenti. Strategie della tensione e della distensione che si insinuavano anche tra le pareti domestiche come nel design di elettrodomestici o di altri beni di consumo.
Autogrill che sembravano centrali nucleari, radioregistratori come quelli delle spie, aspirapolveri che assomigliavano ad astronavi in miniatura e torri televisive come a Cape Canaveral. La guerra fredda si combatteva anche così, cercando di esportare la propria visione del tutto come la migliore, la più attuale e la più convincente, facendo finta di non accorgersi di quanto in verità fosse simile o speculare all’altra.