Urban Anno 8 Numero 72 ottobre 2008
Nel 2008 il Time lo inserisce come unico artista tra i 100 uomini più influenti al mondo. Louis Vuitton ha fatto della sua opera Monogramouflage una collezione. Noi siamo andati a intervistarlo a Tokyo nel suo quartier generale Kaikai Kiki.
E per un attimo abbiamo creduto che i manga esistessero davvero.
Ore 9 a.m. Hotel Akura, Tokyo. Giappone. Lontano milioni di anni luce da noi. “Please, KAIKAI KIKI?” – dico sperando mi capisca. “Aye, arigato, URBAN-san.” Mezz’ora dopo, sfrecciando lentamente nel traffico confusionale di una metropoli di 23 quartieri, dove in un mezzo metro quadrato ci abitano 8 milioni di persone, arrivo a destinazione. Scendo dal taxi spazioso, completamente scintillante, con autista che indossa cappello e guanti bianchi e non altera mai né voce né gesti. Davanti a me Takashi Studios, centro nevralgico dell’icona dell’arte contemporanea di oggi Takashi Murakami-san. Vengo condotto letteralmente al suo ufficio. Alto 1,75 metri, non magrissimo, lineamenti giapponesi, intensissimo, simpatico, barba sul mento, con addosso uno yukata blu di cotone sui cui bordi reca la scritta – in giapponese – “Are you willing to make art ‘til the day you day?”. Not bad come presentazione. Il concetto che l’arte contemporanea sia il veicolo per raccontare le ossessioni e i cambiamenti della nostra società esisteva già negli anni ’60 e la pop art ne ha idealizzato, meglio di tutte le altre espressioni, il lifestyle. Trent’anni dopo ecco apparire altri funghi magici, pupazzi stilizzati, creature psichedeliche, occhi di medusa, margherite sorridenti che costellano il mondo di un artista che ha saputo fondere elementi della sottocultura con il concetto di arte commerciale – estendendola a vinili, plush toy, t-shirt, borse e accessori – semplicemente annullando la condizione che la massificazione di un’opera ne escluda la concettualizzazione. Ecco perché si può definire Murakami come l’erede perfetto di Warhol, soprattutto per l’attenzione che dedica all’evoluzione dei gusti del pubblico, qualità fondamentale per essere eletto al titolo di artista iconico.
“Non proprio. L’unica differenza è che io non faccio pop art ma neo pop. La mia arte non è gioiosa ma rappresenta la lotta e le difficoltà che subiscono tutti gli artisti discriminati e tutti quelli che faticano a farsi riconoscere”. All’inizio degli anni ’90 Murakami emerge come il portavoce di una nuova generazione di artisti – o lowbrow culture, che predilige la cultura Otaku, ovvero l’interesse quasi morboso per anime, manga e video game come fonte di espressione – escludendoli così dall’establishment dell’Arte elitaria. Dopo un breve periodo passato a studiare la scena artistica di New York, nel 1995 Murakami fonda la Hiropon Factory – a un’ora da Tokyo – una combinazione di ufficio, studio e luogo di ritrovo in cui fondere nuove idee e creare un centro di incubazione per giovani artisti emergenti, dove proteggerli, ispirarli e sostenerli anche finanziariamente. “Gradualmente ci siamo evoluti a vero e proprio studio professionale e nel 2001 abbiamo fondato la Kaikai Kiki Co. – con sede e laboratori a NY, Tokyo e Long Island – che impiega attualmente più di 100 artisti che lavorano all’unisono per completare opere quotate milioni di dollari”.
Takashi, ti hanno definito spesso come il Michelangelo dell’arte contemporanea, una sorta di padre padrone che sfrutta giovani artisti per beneficio personale.
“Preferisco la parola Messia e se vuoi dire che loro sono i miei Discepoli, accetto il paragone, ma ho meno responsabilità rispetto a Michelangelo. La maggior parte dei miei allievi possiede talento straordinario. Lavorando per me imparano storia, rispetto, disciplina, sacrificio e soprattutto sviluppano una tecnica che li porterà poi a creare un proprio nome nel mondo”. Kaikai Kiki organizza due volte all’anno Geisai, la fiera dell’arte piú rivoluzionaria del panorama artistico dove chiunque abbia qualcosa da esporre di creativo può partecipare. “La mia attenzione è rivolta soprattutto alle nuove generazioni e mi interessa dare la possibilità a nuovi artisti di avere una voce a livello internazionale, creando un mercato al di fuori di quello giapponese che è troppo ristretto”.
Nel 2008 Takashi Murakami è stato l’unico artista a entrare a far parte della lista di Time Magazine come una delle 100 persone più influenti del pianeta. Una grande mostra dei suoi lavori sta girando il mondo, e sbarcherà in Europa al Museum für Moderne Kunst a Francoforte (ottobre-dicembre 2008) per poi proseguire per il Guggenheim di Bilbao (febbraio-maggio 2009). Camminando insieme a lui fra gli artisti di Geisai11 è facile capire lo status symbol di divinità che ricopre presso la tribù dell’arte ma invece di complimentarmi preferisco attaccarlo e stuzzicarlo.
Takashi ti hanno accusato di commercializzare l’arte invece di trasformare l’arte commerciabile in arte concettuale.
“Persino Andy Warhol ha sempre detto che quando sarebbe morto, solo allora, la gente avrebbe capito il suo messaggio. Adesso è uno degli artisti più quotati sul mercato”.
Murakami è anche il padre del movimento superflat, la semplificazione all’estremo del concetto di arte postmoderna che possa visualizzare a un pubblico occidentale la superficialità della cultura consumeristica giapponese.
È giusta quest’etichetta?
“L’apoteosi del concetto di superflat l’ho raggiunta quando ho avuto la possibilità di collaborare con Louis Vuitton, dove ho potuto espandere il classico concetto di monogramma. All’inizio, per cercare di capire la filosofia della maison mi sono spesso chiesto chi fosse mai Louis Vuitton. Dopo aver capito, sono arrivato all’equazione: LV (borse grandi e costose) + TM (dipinti grandi e costosi) = X (ovvero il futuro della moda)”.
Hanno detto di te che nella tua arte non esiste il concetto di minimalismo, ma solo quello di massimalismo.
“Il mio senso estetico si è affinato sin da quando ero bambino. A quei tempi il mondo seguiva geni come George Lucas e Walt Disney, dai quali ho imparato, oltre che come immergermi completamente in un mondo surreale, a usarlo per commercializzare al meglio la mia arte. Il minimalismo zen, dove tutto è basato sul concetto di less is more, esiste solo come un universo a sé stante, dove tutto inizia e finisce lì, indipendentemente dalle regole universali. Io sono diametralmente opposto e baso il mio credo su more is more, dove la mia filosofia artistica ha bisogno di tutti quegli elementi – la città, il mio studio, i miei allievi, le mie letture, il traffico, la notte – che sono in netto contrasto con la definizione di rinuncia della filosofia zen. Non credo che da questa filosofia possa scaturire tutta la forza creativa che vedo nelle mie opere”.
What’s next, un film d’animazione?
“Aye, Croci-san. Ho sempre voluto essere un animatore. Sono cresciuto con i cartoni animati e i manga, ma non ho mai avuto il talento sufficiente. Gli animatori sono come attori che disegnano. Ma per essere un buon animatore non devi essere solo bravo a disegnare, devi essere capace di immedesimarti nei personaggi e saper ricostruire i loro sentimenti attraverso la tua immaginazione. È un progetto che sto seguendo da anni e che finalmente vedrà la luce del giorno nel 2010”.