Urban Anno 8 Numero 71 settembre 2008
Tracey Emin
Dal ’99, quando irruppe sulla scena internazionale con l’opera My Bed, Tracey Emin non si è mai fatta mancare nulla: sesso, alcool, verità scabrose. A Edimburgo una mostra, ovviamente vietata ai minori, ne ripercorre l’intera storia
Di uomini come lei non ce ne sono più. Tracey Emin, classe 1963, cattiva ragazza della YBA (la giovane arte inglese che grazie al pubblicitario e collezionista Charles Saatchi è diventata un fenomeno mondiale negli anni ’90), non ha ceduto al bon ton dominante oggi nell’arte: continua a sbandierare ai quattro venti le sue vicissitudini sessuali; non ha ingentilito il linguaggio sboccato; non ha messo su casa con marito, figli e station wagon. Ha solo ridotto la dose di alcool quotidiana scendendo a una bottiglia e mezzo per sera. È rimasta insomma dura e pura. Molto più del suo collega Damien Hirst che, dalle crude fotografie negli obitori, è passato ora ai preziosismi dei teschi tempestati di diamanti e dalla vita di alcool e droghe a un regime da collegio sotto il controllo della moglie e dei figli. Tracey no: lei continua a parlare di depressione, aborti, stupri, del degrado della sua infanzia e adolescenza nella sua solita maniera diretta e shockante, senza sconti o sentimentalismi.
Proprio come quando acquistò la popolarità, nel 1997, straparlando, inebetita dall’alcool, durante una trasmissione dal vivo su Channel 4, dicendo che nessuno avrebbe guardato sul serio quel programma e chiedendo di poter andare a casa dalla madre. La fama le cadde addosso nel 1999 quando presentò alla finale del più prestigioso premio d’arte al mondo, il Turner Prize, l’opera My Bed, il letto dove aveva vissuto e dormito per tre giorni, in piena depressione, completo di tutto quello che aveva usato: dalle scatole di cibo ai preservativi. Non vinse, ma Charles Saatchi le comprò il letto per 150 mila sterline così come acquistò un altro celeberrimo lavoro, Everyone I Have Ever Slept With, una tenda dove l’artista aveva cucito i nomi di tutti coloro con cui aveva dormito, compreso il gatto e il fratello gemello (l’opera è bruciata nell’incendio di un grande deposito nel 2004). Nel frattempo è diventata membro della Royal Academy; è stata scelta per rappresentare la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia del 2007, ma non ha addolcito il carattere: ai critici conservatori che ancora le contestano di non essere un’artista lei risponde per nulla intimorita “I’m a brilliant fucking artist. If I wasn’t, I wouldn’t be having the level of success that I have”.
Frase che certifica la stoffa da vero uomo di Tracey, visto che le donne raramente dispongono di tale overdose di autostima.
A lasciare poi tutti allibiti sono le affermazioni sulla violenza subita a 13 anni: a sentir lei non si potrebbe parlare di stupro visto che a Margate, il villaggio sul mare dove è cresciuta, abbandonata dal padre turco cipriota che si barcamenava fra due famiglie, era normale avere rapporti sessuali precoci ed era anche divertente, molto più che averli da grandi, quando tutto si complica. Sono frasi come queste che sconcertano i suoi intervistatori i quali, evidentemente, fanno finta di non sapere com’è l’ambiente nelle città di provincia – e se per questo anche nella stessa Londra, avendo l’Inghilterra il triste primato delle adolescenti incinte. Ma evidentemente il perbenismo di stampo vittoriano è ancora duro a morire e fa sì che da un’artista milionaria, accettata ormai nell’art system internazionale, certe verità siano considerate sconvenienti da pronunciare ad alta voce. Nel 2006 le hanno persino mandato uno psicologo a intervistarla (Geoffrey Beattie per The Observer), con il risultato che Tracey è stata descritta come una donna che vuole essere punita e si sente responsabile del male che le è successo.
Se però volete farvi un’idea autonoma e giudicare con i vostri occhi chi è davvero Tracey Emin, potete volare a Edimburgo dove, fino al 9 novembre, la Scottish National Gallery of Art ha allestito una grande retrospettiva di 20 anni di lavori, con ingresso vietato ai minori di 16 anni non accompagnati. Ovviamente è visibile My bed, ma in mostra c’è anche I’ve Got it All, una versione personalizzata dell’iconografia della Danae (la fanciulla di cui si innamorò Giove che, per possederla, si trasformò in una pioggia d’oro) con Tracey che raccoglie denaro fra le gambe aperte; il film C.V. Cunt Vernacular, la biografia di Emin narrata da lei stessa con tutta la crudezza possibile; diverse sculture/neon come il grande cuore con all’interno la frase “You forgot to kiss my soul” e arazzi con scritte cucite. Le parole per Tracey sono infatti parte fondamentale della sua arte così come i disegni, per lo più erotici, ma anche teneri come quelli dedicati al gatto Docket che lei adora essendo convinta che, per quanto riguarda gli esseri umani, “I don’t think anybody would be in love with me”, dichiarazione rilasciata allo psicologo mandato da The Observer, non si sa se sinceramente o per prendersi gioco di lui.
Questo per quanto riguarda le opere. Per la sua personalità, invece, così causa di sconcerto per gli inglesi per i quali mettere in imbarazzo il prossimo spiattellando i propri affari intimi è forse il maggiore dei peccati sociali, il giudizio sarà ben più difficile. Però, prima di emettere il verdetto, tenete presente un’altra delle memorabili frasi di Tracey: “La gente non immagina quanto io sia vulnerabile”.