Urban Anno 10 Numero 85 febbraio 2010
Intervista a Marina Abramovic
TUTTI I GIORNI, TUTTO IL GIORNO, PER TRE MESI. DA MARZO, PER L’INTERA DURATA DELLA PERSONALE CHE IL MOMA LE DEDICA, MARINA ABRAMOVIC SARA' FISICAMENTE PRESENTE. SENZA MAI ABBASSARE LO SGUARDO.
Ha scritto la storia della performance art con pagine di inaudita crudeltà sottoponendo il corpo a prove fisiche e psichiche così estreme da aver sfidato più volte la morte. Le sue indagini sui limiti della resistenza umana sono state spesso intollerabili anche per il pubblico che è svenuto, ha reagito gridando, piangendo o sfogando la propria violenza repressa su di lei come quando a Napoli, nel 1974, uno spettatore le puntò una pistola in viso.
È stata leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997 con Balkan Baroque: quattro giorni passati a spolpare e lavare montagne di ossa putrescenti, imperterrita, come un rito di espiazione per la guerra in Bosnia, e oggi, a 64 anni, è ancora la regina della performance art. Bella, fiera e forte come un’aquila, Marina Abramovic continua a mettersi in gioco come farà durante la grande retrospettiva che il Moma di New York le dedica dal 14 marzo al 31 maggio. Ogni giorno resterà seduta a un tavolo e in assoluto silenzio inviterà i visitatori ad accomodarsi di fronte a lei per tutto il tempo che sapranno reggere il suo sguardo e la sua presenza muta: la più lunga performance, durerà tre mesi, mai realizzata nella sua vita. Sotto il titolo The Artist is Present saranno in mostra sotto forma di video anche altri cinquanta lavori, scelti fra 40 anni di attività, più cinque ri-eseguiti dal vivo da 35 performer no stop, anche prima e dopo l’orario di apertura del museo.
Nata negli anni Settanta, la performance art sta vivendo un nuovo revival?
“In questo momento in America è la forma d’arte più al top. È come un grande Rinascimento: per esempio al Guggenheim Museum è in corso la mostra di Tino Sehgal con 100 performer: una cosa mai successa prima. Anche la mia mostra è la più grande che abbia mai fatto. Dunque i due maggiori musei di New York, città che ospita anche un festival biennale della performance, dedicano i loro spazi a quest’arte che è sempre stata alternativa e che adesso per la prima volta diventa mainstrem. Da ora in poi tutti gli altri artisti avranno una chance di entrare nei musei come non è mai successo prima”.
I motivi?
“Penso che il fenomeno abbia a che fare anche con la crisi economica perché la performance è una forma d’arte pura, molto difficile per il mercato da vendere. Riappare ogni volta che c’è una crisi economica perché è possibile lavorare con un piccolo budget e perché di questi tempi c’è molta consapevolezza sul corpo a causa della povertà, delle guerre, della gente che muore nel mondo”.
Tre mesi consecutivi di performance non si sono mai visti. Ce la farete?
“Mi sono preparata sia in India da sola che con gli artisti che si alterneranno ogni due ore e mezzo per replicare le mie performance storiche: a settembre siamo stati in ritiro senza mangiare e senza parlare per pulire il corpo e creare una specie di comunità capace di affrontare le avversità”.
Nove anni fa ha lasciato l’Europa per l’America: che bilancio fa?
“In soli nove anni ho raggiunto in America più di quello che ho fatto in tutta la mia vita in Europa perché qui c’è un’enorme quantità di energia e di entusiasmo nel lavoro. Ogni volta che ritorno in Europa, specialmente in Italia, mi sembra che tutto si muova lentamente, che sia come addormentato. Ogni artista a un certo punto della carriera dovrebbe venire a New York”.
Com’è la sua vita quotidiana?
“Posso raccontare per esempio la mia giornata di oggi: devo fare tre interviste, poi ho un set per il settimanale tedesco Stern con Martin Schoeller che vuole fotografarmi nella metropolitana dove tutti i viaggiatori saranno nudi e io l’unica vestita”.
A proposito, lei usa la metropolitana?
“No, prendo i taxi. Trovo la metropolitana claustrofobica. Ma spesso vado a piedi da Soho, dove vivo, al mio studio che non è lontano”.
Torniamo alla sua giornata newyorchese.
“Nel pomeriggio andrò a un’inaugurazione al Guggenheim e poi da Tilda Swinton, per la premiére del suo nuovo film”.
Insomma una vita mondana piuttosto che ascetica.
“In America questo è normale. Quando sei un artista finisce che ti mescoli con molte celebrity di cui in Europa leggi nei giornali, ma che qui incontri al supermarket o al caffè all’angolo.
È molto più facile incontrarsi per la gente che è interessata alle stesse cose. Per esempio con John Franco, giovane star hollywoodiana che ha studiato la performance art all’università, ci vediamo per parlare della tesi che sta scrivendo sul mio lavoro. Anche il mio amico Anthony (della band Anthony and the Johnsons, n.d.r.) sta preparando un nuovo spettacolo a teatro e ci incontriamo perché è interessato alla performance”.
Quali locali frequenta?
“Mi piace molto l’Indochine club, in Lafayette street, e anche il nuovo Boom Boom bar al 18esimo piano dello Standard Hotel, sulla Washington street, da cui si vede tutta la città: la vista è magnifica e la gente va lì per bere qualcosa e ammirare il tramonto sul fiume. A New York, in fondo, posso mescolare i due estremi: stare in completa solitudine oppure uscire nei posti alla moda”.
Che cosa non le piace in America?
“Amo New York, ma l’America è qualcosa di molto diverso. Potrei morire a vivere nell’interno del paese perché è solo un susseguirsi di centri commerciali, televisioni accese e persone obese; c’è troppo vuoto e semplicità intellettuale. Questo paese deve ancora imparare a non essere concentrato solo sul benessere materiale”.
Tornerà in Europa?
“No, non ci sto pensando”.
Lei ormai è una star: non è stanca di rimettersi così duramente al lavoro?
“Posso farlo perché curo molto il mio corpo, per esempio mangio solo cibo ayurvedico che mi faccio preparare mettendo a punto ogni settimana il menu. Non bevo alcool, non fumo, non bevo nemmeno il caffè, faccio esercizio fisico, insomma faccio quasi una vita di rigore militare e quando sono stanca vado a letto alle dieci e mi alzo molto presto alla mattina”.
Non ha rimpianti per la sofferenza cui si è sottoposta?
“La performance mi permette di esplorare ciò che fa paura, ovvero il dolore e la morte, e di mettere in scena queste emozioni davanti a un pubblico ricevendone il riflesso come in uno specchio: in questo modo ho imparato più dal mio lavoro che dalla vita. Intorno a noi abbiamo costruito così tanti muri che tutti dovremmo essere più aperti e vulnerabili”. •