Urban Anno 10 Numero 86 marzo 2010
È quello di una fotografa sul suo quartiere. È quello di Donna Ferrato, che racconta una Manhattan che non c’è più
“Quando a New York fa freddo a Tribeca fa freddo due volte. Quando a New York piove o nevica, a Tribeca piove o nevica più forte. Siamo molto bassi qui, vicino al fiume e gli elementi naturali li senti più forti rispetto a qualsiasi altro posto della città. Anche per questo amo viverci”.
È affascinante conoscere Tribeca attraverso il racconto e le fotografie di Donna Ferrato, che qui abita e lavora dalla metà degli anni ’90, instaurando con questo luogo, e in particolare con il suo loft in Leonard Street, un legame viscerale. Vicende private come il rapporto con la figlia, eventi epocali come l’attentato alle Torri Gemelle e infine il percorso professionale e artistico sono strettamente correlati a Tribeca.
“Sono arrivata a Tribeca perché volevo fuggire dalla folla della New York in cui avevo sempre vissuto, come a Chelsea o a Gramercy Park. Mia figlia invece era molto arrabbiata con me, anche perché il loft in cui ci siamo trasferite era davvero cadente, un’ex fonderia in cui non ci viveva o lavorava nessuno da anni. Mi colpirono il vuoto delle strade e i palazzi in ghisa, mentre su un muro di mattoni dello spazio dove abito vidi incisi i nomi e un volto di uomini che oltre un secolo fa passarono e lavorarono qui e che mi fecero capire il peso della storia di questo luogo. Così decisi di acquistarlo e di fermarmi. I primi anni ero spesso lontano per lavoro e non ho avuto molto tempo per esplorare i dintorni. Ho iniziato più tardi a conoscere e a capire Tribeca, nel decennio in cui tutto è cambiato, nel fotogiornalismo, nell’editoria e nella mia vita. In questa rivoluzione una parte non piccola l’ha avuta Tribeca, e le sensazioni che mi ispira. Insieme a questo posto fu decisivo far parte dell’esperimento “We Live in Public” di Josh Harris, un genio della new economy, che per due settimane a cavallo tra il Natale 1999 e il Capodanno del 2000 rinchiuse una sessantina di artisti in un bunker sotto Broadway controllato dalle telecamere 24 ore su 24. Nel bunker si dormiva tutti insieme in letti di ferro simili ad alveari e si aveva accesso a ogni genere di divertimento e piacere, rinunciando in cambio alla privacy e alla libertà. Questo periodo in condizioni così estreme e così eccitanti, dove trovai come fotografa situazioni irripetibili e imprevedibili, mi cambiò definitivamente, anche perché divenni amica di questi artisti, di questi performer dalle vite e dai sentimenti così forti, che modificarono il mio modo di vedere il mondo”.
Poco dopo altri eventi come l’attentato al World Trade Center avrebbero sconvolto New York e il mondo e anche Tribeca sarebbe diventata più buia e dura. Donna Ferrato non era in città quel giorno, si trovava all’estero in assignment per Stern e l’aver mancato il più grosso evento che abbia mai investito la città le fece perdere fiducia nella fotografia, che perciò lasciò temporaneamente per dedicarsi al video. Lasciò anche Tribeca e per due anni visse a Newark, di nuovo alla ricerca di solitudine e ispirazione. Tornata nel suo loft trovò il quartiere completamente cambiato. Le esperienze degli anni precedenti ne avevano modificato la percezione: ora anche gli eventi esterni la spingevano a fermare con l’obiettivo una parte della città che stava scomparendo sotto la spinta della speculazione immobilare. Tribeca stava diventando un quartiere da milionari, il vecchio carattere andava perdendosi e nessuno sembrava curarsene. Donna sapeva cosa avrebbe dovuto fare e come farlo. “Quando tornai a casa mi accorsi che il quartiere stava vivendo una trasformazione che ne annullava la personalità e il carattere. Dopo l’11 settembre anche El Teddy’s, uno dei locali più affascinanti, fu costretto a chiudere. La facciata dell’edificio fu trasformata, sparì anche la corona della Statua della Libertà che ne occupava il tetto. Successivamente, e parliamo degli utltimi quattro anni, questo processo di trasformazione ha subito un’accelerazione e il quartiere è diventato lussuoso, diversi nuovi progetti hanno interessato l’area, anche se il crollo della Borsa del 2008 ha lasciato molti costruttori in bancarotta e interrotto i lavori. Rimangono così edifici non finiti, altri vuoti per mancanza di acquirenti. Il quartiere vive una nuova fase che credo sia interessante documentare”.
Di giorno le strade sono popolate e si vedono persone in giro pranzare all’aperto leggendo il New York Post. La sera invece bisogna andare nei club: “Sono convinta che il carattere e lo spirito di Tribeca venga fuori soprattutto la notte. Ma per scoprirlo bisogna entrare nei locali, nei club. Io sono ormai considerata di casa, una del quartiere, e vado soprattutto in quelli in cui mi trovo più a mio agio, come al Bubble Lounge. Oppure al Ward III i cui proprietari sono miei amici dai tempi in cui avevano l’Odeon”.
Lavoratori, passanti, gente comune. Ma anche attori e modelle – Tribeca è una location consolidata per film o shooting di moda – che Donna Ferrato ha ripreso da angoli inaccessibili a chi non è del quartiere: “Un giorno JLo (Jennifer Lopez, n.d.r.) si trovava qui per girare delle scene e cambiò diverse location. Io sapevo che avrebbero girato ad Hudson Street, vicino al famoso Bouley Restaurant, e non volendo mettermi in fila come i paparazzi, passai da un’amica che vive propriò lì di fronte. Così ho potuto fotografarla da una prospettiva unica”.
Quello che Donna Ferrato sta facendo oggi con il progetto 10013, dal nome dello zip code di Tribeca, è una vera e propria mappatura del quartiere. Le migliori 20 fotografie di ogni anno vengono stampate e vendute ai collezionisti durante una festa nella sua casa adibita a galleria. Ogni anno vengono prodotte solo 14 scatole con 20 stampe ciascuna: i collezionisti più fedeli avranno alla fine una documentazione unica di un pezzo di storia della città. •