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Arte contemporanea Anno 6 Numero 26 gennaio-febbraio 2011



Pino Pinelli

Alessandra Alliata Nobili

Intervista al maestro



bimestrale di informazione
e critica d'arte


SOMMARIO Arte Contemporanea N° 26

Pino Pinelli
Intervista al Maestro


Mauro Staccioli
La tensione costruita
Opere nel corso del tempo (1971-2009)

Carlo Bernardini
Scoprire l’altrove attraverso la luce

Community
Dai luoghi sociali della memoria ai contesti comunitari del web

Bill Viola per Capodimonte

CoBrA e l’Italia

Wolf Vostell
Intervista postuma


Joël Stein

Aldo Mondino
L’originale alfabeto creativo di un giocoliere dell’arte

Maria Laet
Gesto minimo

Marine Duboscq
La durata del colore

Arte svelata
Realismo e Astrazione dagli anni ‘50 ad oggi

Francesco De Molfetta
Verba volant, scripta manent

Cuoghi Corsello

Redefining Centre
Art light domaquarée

Adolph Gottlieb
Una retrospettiva

Luce e spazio oltre il taglio
Da Lucio Fontana a Paolo Scipra

Mario Botta
Architetture 1960-2010

Arturo Carmassi

Virgilio Patarini
Il fantasma di Ofelia

Libri d’arte

Eventi Flash

Risultati d’asta 2009/2010

Mostre in Italia
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Nelio Sonego
Diego A. Collovini
n. 38 dicembre 2015 - gennaio 2016

Riccardo Guarneri
Diego Collovini
n. 37 gennaio-febbraio 2015

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Claudio Verna
Diego Collovini
n. 35 novembre-dicembre 2013

Gianfranco Zappettini
Diego Collovini
n. 34 giugno-luglio 2013

Maurizio Cesarini
Katiuscia Biondi Giacomelli
n. 33 febbraio-marzo 2013


Pino Pinelli
Pittura R, 2005
Tecnica mista
Veduta della mostra
Courtesy Galleria Santo Ficara Arte Moderna e Contemporanea, Firenze
Foto: Mariani, Firenze

Pino Pinelli
da sinistra a destra:
Pittura R, 1985.Tecnica mista, 3 elementi;
Pittura R, 1986. Tecnica mista, 4 elementi;
Pittura R, 1985.Tecnica mista, disseminazione di 19 elementi.
Veduta della mostra “Pino Pinelli. Pittura 1974-2008”. Cascina Roma, San Donato Milanese, Milano.
Foto Gianni Giovara

Pino Pinelli
Pittura G, 2003
Disseminazione di 25 elementi, tecnica mista cm 200 x 640.Particolare dell'opera
Courtesy Galleria A arte Studio Invernizzi, Milano
Foto: Paolo Vandrash, Milano

A.A. Lei si trasferisce a Milano a metà degli anni sessanta. Che cosa l’attraeva di Milano rispetto all’altro grande polo artistico di allora, Roma?
P.P. Io sono siciliano, di Catania, dove ho compiuto studi artistici. Diventai professore giovanissimo e mi trasferii a Milano perchè da sempre era la mia città d’elezione, poichè esercitava su di me una seduzione fantastica. Sono l’unico della mia famiglia a essermi trasferito perchè vengo da una famiglia della buona borghesia siciliana, che non aveva necessità di spostarsi. Ma io volevo giocare questa carta, il sogno della pittura. Pensi che Dino Caruso, il mio professore di plastica che era stato allievo a Roma di Prampolini, mi suggeriva di intraprendere questo cammino. Fortunatamente mio padre, che da giovane voleva fare lo chanteur di musica classica ma che aveva dovuto seguire per forza di cose le orme della famiglia, capiva questa mia necessità, ed è stato il mio primo sponsor.

A.A. Com’era la Milano artistica di allora?
P.P. Chiaramente l’attrattiva che Milano esercitava su di me era dovuta al fatto che lì c’era il grande maestro Fontana che aveva su tutti un fascino immenso, poi Enrico Castellani, Bonalumi, Manzoni, Dadamaino e tanti altri. Molti purtoppo non ci sono più, ma Enrico ad esempio è ancora un buon amico, abbiamo anche esposto insieme qualche anno fa alla Galleria Plurima con Claude Viallat, uno dei maestri di Support/Surface. Milano in quegli anni era un faro per quei giovani che tentavano una via, per dirla con Paolo Conte. C’è sempre stato fermento culturale a Milano, e non finirò mai di ringraziare questa città perchè veramente dalla prima mostra il mio lavoro è diventato autonomo economicamente. Partecipai a tre edizioni del Premio San Fedele, dal 66 al 68, insieme a molti altri artisti, fra i quali Griffa, Fabro, Zorio e Paolini, premio che aveva allora la funzione di mostrare come si muovevano i giovani artisti al di sotto dei trent’anni. Milano è stata, ed è ancora, uno dei fari d’Europa, non lo è stata però tanto a livello pubblico quanto privato. Tutti i grandi artisti, dalla Nevelson a Rothko, hanno esposto a Milano con gallerie private. Evidentemente le istituzioni pubbliche se la sono presa un po’ comoda e una città come Milano non può restare indietro sulla cultura.

A.A. Mi racconta come si è sviluppato il suo discorso sulla pittura?
P.P. Nei miei monocromi degli anni settanta riducevo la pittura, era come caricare l’opera, ridurla a pura intenzionalità attraverso un processo di sottrazione. Nel settantasei avvenne il passaggio successivo, un lavoro sulla rottura del quadro, fare in modo che il destinatario passivo, il muro, entrando nell’opera diventasse tutt’uno con essa.

A.A. Restando nell’ambito della rottura del quadro, quindi dell’idea di andare oltre la cornice, che importanza aveva per lei alterare il supporto? Negli anni sessanta e settanta ad esempio, Frank Stella esagerava il supporto facendo uscire il quadro dalla parete, trasformandolo in qualcosa di diverso, di plastico.
P.P. Sì, Stella alterava la regolarità del tableau, o allungava un lato del quadro, oppure lo faceva uscire dalla parete in modo esagerato, diventava pitt-scult. In un certo senso sentivo anch’io quest’idea, tant’è che mi interessava che la pittura avesse corpo, ma lavorando su dimensioni molto più ridotte con le mie ‘scaglie’, non volevo eccedere nello spessore. Non ho mai avuto la tentazione del tutto tondo. Ho assolutamente sempre pensato al mio lavoro come pittura con corpo, guardata con una sorta di terzo occhio, staccando la pelle della pittura per scoprirne gli anfratti. Io penso da pittore, il mio quadro diventa la parete. Infatti quando preparo le mostre, per me è importante esplorare lo spazio, voglio entrarne all’interno e pensarlo come uno spartito musicale, dove vanno i legni, gli ottoni, gli archi...mi piace che ci sia il suono, e anche il silenzio.

A.A. A che musica pensa quando dipinge?
P.P. Johann Sebastian Bach, perchè c’è una costruzione finale, la sua musica è costruita, come la mia pittura. Questa domanda mi fu fatta a Parigi alla Galerie Chantal Crousel da un giovane critico che mi disse che sentiva un’aria musicale all’interno della mia opera. L’analogia con la musica è stata notata da molti critici.

A.A. Con le flanelle e l’uso di materiali tattili, a metà degli anni settanta lei inizia anche un percorso molto personale di approfondimento. Può spiegarmi la sua definizione di ‘stato ansioso della materia’?
P.P. La definizione si ispira al titolo di un libro di Harold Rosenberg, (L’Oggetto Ansioso n.d.a) che parla della pittura come una sorta di stato ansioso, di una vibrazione, il respiro della pittura. Il discorso tattile nasce ad ‘Empirica’, una mostra internazionale che curò Giorgio Cortenova nel 1975 (all’ Ente Fiera di Rimini e al Museo di Castelvecchio a Verona, n.d.a.). Nel catalogo della mostra Cortenova descrive come per la prima volta, accostato ad uno dei miei dipinti, appaia un piccolo lavoro, una sorta di appendice, intelaiato su pelle di daino. Volevo che lo spettatatore si soffermasse con lo sguardo sulla sua superficie e allo stesso tempo la toccasse. Questa fu la prima opera che feci sulla tattilità. Non volevo però arenarmi su una pittura didattica, quindi risolsi il problema in prima persona passando alle flanelle.

A.A. Lei ha parlato di una natura seduttiva della pittura.
P.P. Sì, la pittura ha una natura seduttiva, femminile, perchè vuole essere guardata, vuole che tu partecipi, a volte vuole anche essere accarezzata, e mi piace anche questa idea di ‘alterità’. In questo senso: le mie opere hanno un aspetto seduttivo, ma appena le tocchi ti respingono. (confermo: quando accarezzo un’opera che ha l’aspetto di una seducente superficie vellutata, è un po’ come toccare una lava vulcanica, ricoperta di minuscoli cristalli di roccia pungente n.d.a.).

A.A. Come erano agli inizi i suoi rapporti con la critica?
P.P. A Milano mi è stato subito possibile avere attenzione critica, poi negli anni settanta quando il mio lavoro cominciava ad essere più maturo, ho conosciuto Vittorio Fagone, Italo Mussa, Tommaso Trini e poi Filiberto Menna, che ha teorizzato con importanti mostre il discorso della pittura ma che purtroppo troppo presto ci ha lasciati. E poi naturalmente c’erano altri, come Giorgio Cortenova e in modo tangenziale Caroli che era però più iconico che aniconico. E poi Giovanni M. Accame, Claudio Cerritelli, Flaminio Gualdoni, Marco Meneguzzo, Giorgio Bonomi.

A.A. Non pensa che sia mancato un supporto critico alla pittura analitica italiana che la facesse conoscere al di fuori dell’Italia, e che questo abbia determinato una situazione di svantaggio a lungo termine?
P.P. Guido Ballo e Gillo Dorfles sono stati sicuramente grandi critici, ma non hanno seguito particolarmente gli artisti della nostra generazione. Con Germano Celant e Achille Bonito Oliva nasce il binomio perfetto artista-critico che ne teorizza la tendenza. Oggi i nostri grandi maestri, da Fontana a Manzoni a Burri, stanno finalmente entrando a far parte dei circuiti internazionali.

A.A. Quali sono state in passato le ricerche in ambito pittorico negli USA che ha trovato più interessanti?
P.P. Rispetto all’arte americana io allora avevo un atteggiamento duplice perchè ne capivo l’importanza, adoravo Morris Louis e quella sua idea del vuoto pieno, della pittura colata, che sborda, esce, che va verso altre dimensioni. Però c’era anche, soprattutto nei riguardi della Pop Art, una riserva nei confronti dell’atteggiamento da ‘marines’ che sbarcavano prepotentemente in tutti i musei europei. Era tutto molto diverso dalla mia concezione, che è ‘pensare’ la pittura.

A.A. Definirebbe il suo operato come un approfondimento sullo stato dell’essere della pittura e sui modi per raggiungerne la conoscenza?
P.P. La mia pittura è autosignificante, non c’è rappresentazione, non c’è mai stata. La mia pittura è, e basta. Come un guerriero cieco cerco la luce. Non c’è pittoricismo, non c’è la mezza tinta, il colore confortante, ma una nota, come un’accelerazione che ti proietta in alto. E’ come se io portassi l’idea totale di un blu possibile, che naturalmente è ottenuto addizionando cinque, sei tipi di pigmento, per arrivare all’estensione massima di un’idea del colore. Pertanto direi che le due ricerche corrono in parallelo.

A.A. Vorrei chiederle del suo rapporto con la semiotica. In America negli anni settanta e ottanta, ma fino ad oggi, penso ad artisti come John Baldessari e Ed Rusha, l’indagine semiotica nell’arte avveniva soprattutto attraverso una contaminazione di pittura, parola e fotografia. In Italia, penso a lei ai suoi esperimenti con diversi tipi di segni, ma anche ad artisti come Capogrossi o la Accardi, la ricerca semiotica sembrava essere più interna alla pittura.
P.P. Lo spiego come grado di libertà maggiore che hanno sempre avuto gli artisti americani che, dovendo scrivere la loro storia, riuscivano a far coesistere più esperienze, e non si ponevano il discorso prettamente linguistico degli europei. In Europa solo Gerhard Richter riesce a giocare su due piani. Noi, tutti, siamo stati un po’ in una situazione che intendeva portare la pittura alle estreme conseguenze, ma sempre all’interno di una precisa scelta di campo.

A.A. Lei opera con relazioni sempre variabili con l’ambiente. Nel 2003 nella mostra ‘L’ombra della percezione’ allo studio Invernizzi, coinvolgeva l’architettura nell’opera dipingendo i muri della galleria di bianco e di giallo, collocandovi opere dello stesso colore che si confondevano o emergevano dallo sfondo a seconda della luce. Qual’è il suo rapporto con lo spazio espositivo?
P.P. Sì, la mia idea era quella di fare un lavoro nel quale la pittura si animasse a poco a poco, quindi che lo spettatore, preso dal bagliore di questa luce gialla o bianca della parete, si rendesse conto solo in un secondo momento della pittura che navigava al suo interno. Il rapporto con lo spazio espositivo è fondamentale. Ti dice: sono fatto così, come mi conquisti? Come riesci a prendermi? Quindi ho pensato a questi elementi che attivano la parete, che si adagiano, si appoggiano e cominciano a far nascere l’opera. Era un esperimento, ma devo dire che i galleristi non hanno esitato un attimo ad assecondare il mio progetto.

A.A. La frammentazione dell’opera, il fatto di ‘ricomporla’ sul muro, non è per lei in un certo senso anche un ritorno ad una sorta di figurazione? Oppure è un modo di svuotare ulteriormente la forma da un possibile contenuto rappresentativo? In quale modo il mondo esterno entra, oppure no, nelle sue opere?
P.P. La frammentazione per me mima un gesto sacrale, la semina, che è quello di chi fa nascere la vita, l’atto della fecondazione. Se in questo senso vogliamo leggere un’ ipotesi possibile di un connotato che abbia a che fare con il mondo esterno, questo può essere solo inteso nel senso che la pittura ha la funzione di ‘portare al di qua del muro’, di trasferire qualcosa che non c’e, che vive nel mondo dell’inconoscibile e renderla concreta, in questo caso alcuni frammenti navigano nello spazio, prendono e danno luce. E’ un’energia che nasce, si solidifica e prende corpo. Quindi l’ipotesi di ‘figurazione’ mi sembra inappropriata...Poi tutto è possibile, alcuni frammenti potrebbero far pensare a delle metope, dal momento che io sono etneo, cresciuto in via Teatro Greco...

A.A. Cos’altro pensa di portare con sè della sua Sicilia?
P.P. Spero di portare la luce.