Urban Anno 11 Numero 97 maggio 2011
tattoo & romance
I tatuaggi hanno sempre regalato a Scott Campbell quello stile di vita romantico per lui inevitabile. Un giorno però l’inchiostro ha rotto l’argine. E il suo tratto è diventato arte
Ogni mattina Scott Campbell arriva nel suo studio a Williamsburg, Brooklyn, in skateboard. Dovevamo incontrarci qui poco prima della sua mostra alla OH WOW Gallery di Los Angeles lo scorso marzo, ma quella mattina, all’ultimo minuto, ha deciso di mettersi al volante di un camion pieno zeppo di sculture e dipinti ed è partito per la California. Quattro giorni di guida senza sosta. “Se si doveva rovinare qualcosa, volevo essere io il diretto responsabile” mi spiega al suo ritorno nella city il mese dopo. È onesto e diretto Scott. Nel giro di due anni lui, meglio noto come il giovane ribelle tattoo-artist delle celebrity (ha tatuato letteralmente tutti: da Heath Ledger a Terry Richardson a Lily Cole), è riuscito a farsi un nome nel mondo dell’arte. E si è da poco aggiunto alla celebre lista di creativi (da Takashi Murakami a Stephen Sprouse) che hanno collaborato con Louis Vuitton. Parlando con Scott Campbell lo sentirai nominare la parola romanticismo almeno una volta ogni cinque minuti e scoprirai che le sue opere d’arte sono come lui, impulsive e passionali; nascono per caso, da un’esperienza emozionale del quotidiano.
Come hai conosciuto Marc Jacobs?
“Avevo tatuato per caso un po’ di modelle che lavoravano con lui. A un certo punto Marc chiese a una di loro, Shelly (Zander, n.d.r.), informazioni su di me e prese appuntamento in negozio. Mi aspettavo questo tipo tutto infoiato con la moda, ma quando arrivò mi ritrovai di fronte una persona molto dolce, modesta e con i piedi per terra.
Non avrei mai creduto di essere così influenzato da uno come Marc. Da allora siamo diventati molto amici, ho fatto tipo 20-30 tatuaggi su di lui”.
Come ha avuto inizio la collaborazione con Louis Vuitton?
“In maniera divertente! Un anno fa, dopo il primo plauso dal mondo dell’arte, avevo deciso di focalizzarmi solo sulla mia arte senza fare alcuna collaborazione di sorta. In quel preciso momento ha squillato il telefono, era Marc e mi ha chiesto: ‘Hai tempo per fare qualcosa per Louis Vuitton?’. E io: ‘Ok, nessuna collaborazione tranne questa!’. Perché se c’è un marchio nella moda che può dare credibilità al mio lavoro nel mondo dell’arte quello è sicuramente Louis Vuitton. E poi perché ho una profonda ammirazione per Marc: qualunque cosa mi proponesse, la farei”.
È vero che volevi fare l’illustratore di libri di medicina da ragazzo?
(Ride) “Sì, mio padre spingeva perché facessi il dottore da piccolo, quindi al college mi iscrissi a Biotecnologia e rimasi affascinato inizialmente dall’idea di essere un illustratore scientifico. Mi sembrava un lifestyle così romantico! Ma coincise con il periodo in cui tutto si stava trasformando in digitale, in 3D, e capii che non era la mia strada. Continuo ad amare la scienza però, mi piace l’idea che sia questa estrema ricerca della scoperta della verità…”.
Come mai hai deciso di diventare un tattoo-artist?
“L’attrazione iniziale è scattata perché era qualcosa che mi consentiva di avere un lifestyle molto romantico, quasi criminale, non convenzionale. L’unica cosa che dovevo fare era disegnare. Potevo fare un po’ di cash e trasferirmi sei mesi a Tokyo, poi andare a Parigi e stare là per un altro po’ di tempo. Ho vissuto in Spagna per un anno. Sono stato in giro per quattro anni, poi sono arrivato a New York ed è stato amore istantaneo. Non avrei mai pensato di potermi trasferire da nessuna parte in maniera stabile… Ma New York ha così tanta energia: è l’unica città in cui puoi fermarti ma allo stesso tempo avere la sensazione di essere sempre in movimento”.
Ti sei sempre dedicato all’arte in senso convenzionale o è una cosa recente?
“Per me il mondo dell’arte è sempre stato intimidatorio. Mi sembrava troppo accademico, pensavo di non conoscere sufficienti parole e di non essere in grado di comunicare con queste persone.
Quando mi sono trasferito a New York ho iniziato a conoscere tipi come Dash Snow e Dan Colen, e mi si sono aperti gli occhi. Erano ragazzi come me, con una sensibilità simile alla mia, ma allo stesso tempo avevano l’attenzione del Whitney, avevano una voce nel mondo dell’arte. Questo ha cambiato la mia percezione dell’art system, il pensare che apprezzassero gente di questo tipo l’ha resa molto più romantica”.
Consideri la tua attività di tatuatore un tutt’uno con quella propriamente artistica?
“Quando iniziai a dipingere, pensavo di dover ricominciare tutto d’accapo. Poi ho capito che i miei 12 anni di esperienza nel tattoo mi hanno fatto acquisire una sensibilità che rende il mio lavoro artistico unico, e che questo è un pregio, non un difetto”.
Quali sono le differenze maggiori tra le due attività?
“Molte persone associano al tatuaggio l’idea di un qualcosa di permanente. In verità tra tutti i medium che uso è quello più effimero. È anche un concetto romantico perché fai qualcosa con amore e questa camminerà da sola in giro per il mondo, ma a lungo andare può diventare frustrante. Adesso sento di poter comunicare su una piattaforma più grande, che ha maggiore risonanza”.
Molte delle tue sculture sono fatte di soldi, perché?
“Sono sempre stato affascinato dal tagliare layer di carta sovrapposta. Un giorno avevo una manciata di biglietti da un dollaro e ho iniziato a tagliarli. Ho provato una sensazione inaspettata e molto interessante per me; nonostante il mio passato punk-rock e la mia natura ribelle contro il sistema, ho sentito che comunque avevo un attaccamento emozionale ai soldi. Ho iniziato quindi a fare queste sculture e la reazione di tutti era: ‘quanti soldi hai usato?’. Alla fine sono gli stessi che spendi tra carta e cornice facendo un dipinto o una scultura in maniera classica. Solo che per qualche ragione usare direttamente le banconote è più visivo e immediato. Le persone hanno questo innato senso di protezione verso le banconote da un dollaro. Quindi che mi piaccia o meno ho scoperto di provare un attaccamento emotivo ai soldi. E mi piace giocare con queste sensazioni, con quell’iconografia…”.
E invece come hai iniziato a dipingere nelle uova?
“Volevo fare un regalo a una ragazza. Presi un uovo, lo ruppi, e iniziai a disegnare un motivo intricato all’interno del guscio. Rincollai i pezzi alla perfezione, riempiendo tutte le piccole crepe con il gesso affinché sembrasse un uovo perfetto. Una volta pronto glielo diedi, lei mi guardò con aria disorientata e le dissi che doveva romperlo per vedere cosa ci fosse dentro. La tensione che scaturì nel momento in cui lo ruppe e realizzò la bellezza che c’era dentro, ma che aveva ormai distrutto, è stata per me indimenticabile. Sono molto romantico, mi piace l’idea che per apprezzare qualcosa la devi per forza distruggere”. •