Arte e Critica Anno 18 Numero 70 marzo-maggio 2012
Intervista a Niels Van Tomme
CS: La curatela può essere concepita come una pratica sociale complessa: considerando l’approccio socio-politico più una metodologia che un argomento da trattare, in che modo possiamo attivare una critica dell’atto espositivo?
NVT: Negli anni ’20, il curatore tedesco Alexander Dorner cominciò a sperimentare diverse modalità espositive. Prendendo le distanze dalle strutture artistiche tradizionali, diede vita alle cosiddette “atmosphere rooms” che presentavano un allestimento a-cronologico che si sviluppava con un approccio tematico attraverso la storia. Questo è stato un primo grande cambiamento della pratica espositiva, uno di quelli che hanno ripensato radicalmente il ruolo del curatore come colui che si interroga e problematizza in modo attivo il sistema di cui inevitabilmente è parte. Fino a quel momento il curatore era considerato come una sorta di tecnico, unicamente responsabile delle collezioni, e questa responsabilità consisteva esclusivamente nel renderle accessibili al pubblico. Con Dorner ha inizio una nuova forma di espressione – la curatela come modo di interrogarsi e di porre in dubbio, e direi che questo è anche l’approccio potenzialmente socio-politico che trovo più interessante nella pratica curatoriale contemporanea.
CS: In che modo il ruolo del curatore, tradizionalmente inteso, è un ruolo autoritario?
NVT: Quello del curatore è un ruolo che esprime potere per definizione, dal momento egli riveste una posizione autorevole rispetto alla conoscenza di uno specifico argomento, e vi sono aspettative nei confronti di tale posizione. Egli risponde a queste aspettative attraverso la mostra stessa, come anche attraverso conferenze e scritti. Mi trovo spesso in questa posizione, e può essere estremamente piacevole, ma ho anche esplorato pratiche curatoriali più sperimentali, soprattutto introducendo il dubbio, l’esitazione e l’incertezza come principi guida dell’atto espositivo.
CS: Il dubbio è alla base della conoscenza; esitazione e incertezza sono tratti fondamentali del modo di essere contemporaneo: secondo te, come possono essere esplicitati dal curatore il cui ruolo sembra essere apparentemente quello di formulare uno statement?
NVT: Trovo i primi dialoghi di Platone particolarmente stimolanti, a questo proposito: c’è sempre qualcuno che pensa di sapere qualcosa su uno specifico argomento che in realtà non conosce, e ciò infonde in lui il desiderio di indagarlo più da vicino. Da curatore, che si ritiene parli da una prospettiva onnisciente, trovo che questo sia un punto di partenza affascinante che attiva una serie di interrogativi stimolanti. Cosa accade quando la mostra diventa un mezzo attraverso cui il curatore esprime il proprio dubbio anziché la propria autorevolezza circa un particolare argomento? Che tipo di conoscenza può essere acquisita aderendo a una simile posizione curatoriale improntata allo scetticismo? Significa che il meccanismo espositivo è destinato necessariamente al fallimento, o esistono altre modalità di realizzare ed esperire una mostra? Stiamo parlando di una disciplina relativamente nuova, la pratica curatoriale ha solo un centinaio di anni e se ne parla come se fosse una disciplina intellettuale già pienamente sviluppata. La sua ampia accademizzazione, con programmi che spuntano un po’ in tutte le università del mondo, è solo uno dei tanti segnali che stiamo raggiungendo una fase di stallo. Credo sia giunto il momento di fare un passo indietro e indagare alcune delle possibilità finora trascurate, infondendo in essa una serie di questioni critiche, ma piuttosto semplici.
CS: Anche dall’artista ci si aspetta uno statement: come può l’incertezza cambiare il ruolo dell’artista e soprattutto il suo rapporto col curatore all’interno dell’intero processo creativo?
NVT: L’immissione di una visione scettica nella pratica curatoriale apre l’opportunità di rinegoziare il ruolo dell’opera stessa nel contesto espositivo – si tratta di uno spostamento dalla mera presentazione di un progetto curatoriale conchiuso in se stesso alla messa in discussione della natura dell’atto espositivo in quanto tale. Boris Groys ha notato come il lavoro di un artista non possa semplicemente mostrarsi e costringere l’osservatore alla contemplazione; ciò richiede in realtà un aiuto esterno – un contesto espositivo e un curatore – per realizzarsi. Vorrei capovolgere questo concetto e domandare cosa succede se la mostra manca in effetti di vitalità e forza. Cosa accade se proprio i lavori in mostra decostruiscono la struttura che permette loro di esistere? Gli artisti hanno sicuramente un ruolo centrale in questo processo – il prendere forma di uno statement curatoriale.
CS: Puoi farci qualche esempio di progetti internazionali che secondo te suggeriscono in qualche modo l’idea di aporia come approccio curatoriale? E poi, com’è che questo tipo di approccio si relaziona con il contesto e il pubblico?
NVT: The Aporia of Curating è qualcosa di più di un dispositivo retorico attraverso il quale posso esprimere alcuni dei miei dubbi sulle pratiche curatoriali attuali. Ma c’è un progetto che mi viene subito in mente e che potrebbe essere visto come stimolo per un ulteriore approfondimento: an Exhibit di Richard Hamilton e Independent Group, tenutosi alla Hatton Gallery di Newcastle nel 1957.
L’idea era quella di non esporre “né oggetti, né idee”, così la mostra consisteva in una serie pannelli colorati sospesi nello spazio tra i quali i visitatori potevano muoversi liberamente. In questo caso l’allestimento, anziché essere la realizzazione di un concept curatoriale, diventa il vero tema della mostra. Più sperimentale che didattico, il progetto mette in discussione i ruoli tradizionali del curatore e del visitatore e lo fa creando un contesto dialettico che contemporaneamente nasconde e mostra le sue stesse premesse. L’autorialità del curatore è qui sospesa e si sposta sul visitatore, nella misura in cui lo spazio espositivo consente esperienze soggettive differenti elaborate individualmente dal visitatore. Non voglio dire che questo sia un modello a cui aderire. Il mio interesse curatoriale è molto meno formale. Ma questo è un esempio concettualmente interessante di come la confusione iniziale del visitatore possa diventare una precondizione per un reale cambiamento. Nei miei progetti espositivi aporetici come Melancholy is not enough… non metto in dubbio necessariamente il format espositivo. Prendo le mosse da una forma molto diretta di indagine che a volte è composta da un’incompiutezza concettuale intenzionale che cerco di negoziare o di problematizzare ulteriormente attraverso il progetto espositivo. Preferisco lasciare irrisolti alcuni punti. Cerco di rompere gli schemi che costituiscono l’esperienza “standard” di una mostra poiché penso che anche i visitatori possiedano libertà di azione – non importa quanto un’esperienza possa essere disorientante e alienante.