Arte e Critica Anno 18 Numero 71 giugno-agosto 2012
Nikhil Chopra è uno degli artisti indiani più interessanti tra quanti emersi negli ultimi anni e probabilmente uno dei più promettenti a livello internazionale. Ha partecipato alle grandi rassegne che nelle ultime stagioni hanno focalizzato l’attenzione su tematiche e modalità del fare arte nel subcontinente indiano e, come molti artisti della sua generazione – e non solo indiani –, si è voluto e dovuto confrontare con i grandi temi che i riassetti geopolitici e gli sviluppi dell’economia globale hanno reso sempre più urgenti. Con una solida educazione artistica maturata sia in India sia in America, Chopra ha lavorato attraverso performance molto complesse, ove attraverso il disegno, il travestimento, l’installazione, l’azione ha indagato la sua memoria e quella di un paese attraversato da enormi cambiamenti, costruendo e interpretando dei personaggi (Sir Raja, ovvero un maharaja, Yog Raj Chopra, ovvero suo nonno artista formatosi nell’Inghilterra degli anni trenta, pittore di paesaggi del Kashmir) che gli permettessero di scavare nel passato, di guardare dall’esterno la propria generazione, di rileggere alcune pagine di storia attraverso l’immedesimazione in figure che rappresentavano proprio ciò che era stato superato, di guardare alla fase post-coloniale con occhi più liberi rispetto ai cliché che quella stessa fase ha prodotto. La performance realizzata di recente a San Gimignano su invito della Galleria Continua, e prima ancora alcuni lavori realizzati a Berlino, sembrano concentrare l’attenzione dell’artista su questioni sempre più intimamente legate al rapporto di un corpo, il proprio, con uno spazio che, cambiando di volta in volta, modifica il corpo stesso nella sua più ordinaria e al contempo profonda condizione esistenziale. La storia continua ad essere non solo uno scenario proiettivo ma una sorgente di condizioni possibili entro le quali esperire se stesso, una fonte continua di appigli per la costruzione di una autobiografia che si possa definire tale nel senso più impegnativo del termine, fuori dal copione attraverso tanti copioni.
DB: Partiamo dalla performance che hai appena realizzato a San Gimignano, inside out: 99 ore trascorse nello spazio dell’Arco dei Becci nei panni e nello studio di un pittore rinascimentale (Benozzo Gozzoli?). Qual era il tuo progetto iniziale? Quali sono stati gli step principali intorno ai quali si è snodata la performance?
NC: Affronto gran parte delle mie performance dall’ottica del pittore. Ciò è principalmente dovuto al fatto che ho studiato pittura alla scuola d’arte. E quando ripenso alla mia formazione artistica mi rendo conto di quanto il Rinascimento italiano sia radicato nella nostra mente. L’apprendimento della prospettiva, la figura umana, la natura morta erano parte integrante dei miei studi.
In occasione delle numerose visite a San Gimignano e in Toscana ho capito davvero da dove veniva il Rinascimento, e conversando con la gente nella piazza principale non ho potuto fare a meno di inquadrarla nella propria architettura e nel proprio paesaggio lirico; ciò ha costituito una prima sollecitazione alla performance. Gran parte delle mie performance sono un tentativo di collocare il corpo in un luogo e in un tempo. Realizzare disegni di ciò che vedo diventa uno strumento per farlo. Quando ho visitato la Chiesa di Sant’Agostino e ho visto gli affreschi di Benozzo Gozzoli sono rimasto fortemente impressionato e subito ho capito che sarebbero diventati una preziosa fonte di ispirazione.
DB: Quanti ruoli hai incarnato, in realtà, durante inside out? Come si relaziona questo tuo nuovo personaggio con quelli che hai interpretato in circa dieci anni di attività performativa (penso al primo carattere intorno al quale hai lavorato, Sir Raja, ideato nel 2002, e poi a Yog Raj Chitrakar, a Drum Soloist)?
NC: È difficile dirlo poiché non credo più di interpretare dei personaggi. Li vedo piuttosto come individui o come estensioni di me stesso. Sono le situazioni e le circostanze a trasformarmi in monaco, pellegrino, guerriero, pittore, avventuriero, dandy o clown. Ad esempio, camminare per la strade di San Gimignano alla fine della performance, con il volto dipinto di bianco, vestito e inzuppato di pioggia, ha dato vita a una sorta di clown che appariva triste, indifeso, amareggiato; tutto l’opposto del turista spensierato in vacanza, di passaggio a San Gimignano.
DB: Che tipo di quotidiano hai vissuto in quelle ore? Cosa è accaduto secondo te in quel lungo lasso di tempo trascorso in un luogo, San Gimignano, così distante dalla tua esperienza, e quindi dalla tua memoria?
NC: Mi sono dato un compito, quello di realizzare dei disegni di San Gimignano. Ogni mia azione ruotava attorno a tale obiettivo; mangiare, dormire, indossare ed esibire i disegni per le strade e i paesaggi. La lunga durata mi consente di abitare un luogo, lasciare che penetri in me e quindi trasformarmi. Il mutamento avviene a livello fisico ma anche psicologico.
DB: Come intendi dunque il luogo all’interno del tuo lavoro? E lo spazio operativo all’interno del quale costruisci le tue opere?
NC: Spesso ho la sensazione che un luogo scelga me tanto quanto lo scelgo io. L’invito a venire a San Gimignano è arrivato dalla Galleria Continua e tutto è iniziato da qui.
DB: Gli abiti dipinti che hai indossato a San Gimignano durante la performance e i paesaggi a carboncino realizzati sulle pareti dello studio fanno parte del ricco processo che sostanzia abitualmente il tuo lavoro. Mi viene da pensare che siano parti integranti di un intendere la performance sia come atto esplorativo e conoscitivo sia come momento costruttivo, pratica artigianale, nel senso più ampio del termine. Quale significato attribuisci all’uso dei diversi mezzi espressivi che compongono i tuoi lavori?
NC: Il disegno è come il proverbiale pozzo senza fondo. Più ne faccio, più imparo. Il suo potenziale è illimitato. Esiste da quando noi esistiamo, dalle grotte di Altamira e Lascaux, ed esisterà fino a quando non ci estingueremo. Tracciare segni è una delle forme di espressione più primitive, spesso è un modo per dire “io c’ero”. Può anche diventare un modo per misurare il tempo. Ad esempio, un prigioniero conta i suoi giorni in prigione facendo dei segni sui muri.
DB: Hai lavorato a lungo utilizzando travestimenti che, proiettandoti in una condizione temporale lontana – quella di un’India amministrata ancora dagli inglesi –, ti hanno permesso di indagare in modo autentico, e da prospettive multiple, il cambiamento epocale che ha interessato il tuo paese. Cosa ti è stato possibile mettere a fuoco, in questi anni, avendo lavorato su una forte istanza d’attualità attraverso il filtro della storia?
NC: Più realizzo performance più nel mio lavoro mi rendo conto del ruolo della memoria contrapposta alla storia. Quest’ultima sembra rigida e lineare, mentre l’altra appare fluida e malleabile. Sì, sono un prodotto del passato coloniale dell’India. Ma questo aspetto è raccontato più nelle esperienze di vita, possibilmente in conversazioni fatte a tavola, o nelle fotografie.