Inside Art Anno 3 Numero 22 giugno 2006
Incontro con Massimo Bartolini
Confinata negli sgabuzzini del Maxxi, finché il Centro per le arti contemporanee di Roma sarà qualcosa di più di una ex caserma in ristrutturazione, c’è un’istallazione di Massimo Bartolini.
Una porta girevole, immersa nel giallo, profumi di terra e di gelsomino che afferrano chi l’attraversa. Al chiuso d’una stanza o negli spazi aperti, l’idea di questo artista nato e vivente a Cecina, nella Toscana che guarda il mare, è la stessa.
L’arte, dice, parla privatamente al pubblico. Qual è il suo concetto d’arte e di quale messaggio vuole farsi portatore? «Dell’arte non si hanno concetti, semplicemente ci si sta dentro, spesso senza esserne nemmeno troppo consapevoli.
Del sistema dell’arte invece siamo fin troppo consapevoli, forse. Il messaggio non si porta ma si attacca ai peli del petto, come i figli di una scimmia. Il messaggio è già nella cosa, così come la scultura è nel pezzo di marmo. Non è separabile dalla cosa in sé, ma complementare. Lo spazio è insieme al tempo è una convenzione che misura l’intensità.
Questa è la vera matrice di ogni cosa materiale, incluso il metafisico, lo spirituale. Io cerco di fare dei luoghi ove le persone possano verificare il manifestarsi di questa intensità». Riunire esattezza ed efficacia, natura e società, dice ancora, spetta all’arte.
«L’Mp3, riproduttore audio, riproduce meno frequenze del vinile, ma si può mettere in tasca meglio di un giradischi, si guasta meno, costa meno.
Il sistema dominante giudica queste caratteristiche efficaci e non giudica efficace la perfetta qualità della musica riprodotta. Esattezza ed efficacia stanno tra di loro come sintesi e analisi, come analogico e digitale. L’efficacia è un’azione rivolta verso un riempimento di una casella predisposta da un sistema esistente, il suo terreno è il noto, e quando si relaziona all’ignoto lo fa solo per trasformarlo ancora in noto.
L’esattezza comprende l’ignoto senza snaturarlo, il progetto è già la cosa realizzata, tutto avviene in un unico respiro, è il momento di accordo più alto fra ambiente e abitante.
Natura e società sono una cosa sola, anche l’uomo è natura, dice Robert Walser, ma questa umanizzazione del mondo condotta senza rispetto per l’invisibile cancella semplicemente delle caratteristiche fondamentali del nostro ambiente.
In Excalibur di John Boorman Merlino si rifugia nei sogni quando intuisce l’arrivo del dio unico». Dalle foto ai video, poi ha focalizzato l’attenzione sulle installazioni “en plein air”, sulla “materia mutante”. Perché questo passaggio? «Non c’è passaggio, semplicemente certi lavori necessitano di uno strumento e certi di un altro.
Sono progettuale come modo ma cerco di scegliere il meno possibile ». Cosa l’ha spinto verso l’arte e che rapporto c’è tra l’artista e il mondo in cui vive? «Hannibal Lecter dice che si comincia a desiderare ciò che si vede tutti i giorni.
Il posto in cui si vive è il luogo in cui si comincia a desiderare. Io sono nato nel luogo in cui vivo, anche se questo potrebbe essere chiamato meglio il luogo in cui ritorno. Penso che sia importante ricordarsi sempre il primo attimo in cui si è iniziato a desiderare qualcosa, lì secondo me c’è la verità di ogni gesto.
Spesso troppe azioni si sovrappongono ai pensieri e questi tendono a considerarsi autosufficienti. Ma all’inizio, il vero inizio, questi pensieri ti appartengono e sono rivelatori». Perché vivere a Cecina? «Puro istinto di sopravvivenza». L’opera che presenta a Basilea è una grande panchina sospesa sulla A di Anarchia.
Un messaggio anche politico? «Il lavoro di Basilea parte da una scritta fatta sul piazzale della fiera, opera di Heimo Zobernig, e dice: “Messe platz messe Basel”. Io ricopio sulla A di Basel una A identica per dimensioni, sopraelevata di 50 centimetri, che è una panchina e allo stesso tempo un giardino. Chiaramente la A nel cerchio si riferisce al simbolo dell’anarchia che a livello internazionale si è organizzata proprio in Svizzera e a Basilea agli inizi del 900 c’è stato il quarto convegno anarchico. Molte altre cose e riferimenti sono contenuti in questo lavoro: c’è un bellissimo disco dei Pan Sonic che si chiama A, e anche Kid A dei Radiohead, ma non voglio influenzare la visione di chi lo vedrà, prima sentire e poi parlare.
Dimenticavo, il titolo dell’opera è “A bench”».
L’ARTISTA
Massimo Bartolini, nato nel 1962 a Cecina (Li) dove vive e lavora, utilizza nel proprio lavoro tecniche diverse come foto, video, installazioni, ma negli ultimi anni si è concentrato nella progettazione e costruzione di opere capaci di trasformare lo spazio e i luoghi. La sua ricerca è finalizzata a modificare la percezione dello spazio: opere-percorsi da attraversare e allo stesso tempo paesaggi mentali che portano a galla frammenti del quotidiano. In quest’ottica le stanze della sua abitazione (le “teste”, come le chiama l’artista) sono tra le metafore più importanti del suo sistema espressivo, luoghi entro cui ripensare e superare i limiti spaziali.
"A" COME ANARCHIA
Una panchina monumentale sulla piazza della fiera internazionale d’arte di Basilea. È questa l’opera che Massimo Bartolini costruisce nello spazio antistante la “Art 37”. L’allestimento si inserisce sul lavoro dell’artista austriaco Heimo Zobernig che tempo fa ha fatto scrivere a caratteri cubitali “Messe platz messe Basel” nell’asfalto. Sulla “A” di Basel Bartolini costruisce una piattaforma identica, alta mezzo metro, circondata da una recinzione aperta da un lato. La “A” diventa così un’enorme panchina per i visitatori della mostra, ma ricorda anche il simbolo dell’anarchia, la “A” in un cerchio. La struttura è rinverdita con alberi di acacia e di notte è illuminata.