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Inside Art Anno 3 Numero 23 luglio 2006



Sogno d’estate a Roma

Maurizio Zuccari

Incontro con Mark Kostabi



The Living Art Magazine


EDITORIALE
Kostabi, innovatore classico di Guido Talarico

PRIMO PIANO
Sogno d’estate a Roma
incontro con Mark Kostabi di Maurizio Zuccari


INTERVENTI
Ho visto dio di Valerio Lari

EVENTI
Dove rinasce la scultura
colloquio con Antony Gormley di Alberto Fiz
Opere eteree alla tesoreria di Maria Luisa Prete
Le etnie dell’arte di Pino Romano
Omaggio a Picasso di Michele De Luca

CARTELLONE
Da Mirò a Boltansky, il meglio del mese di Maria Luisa Prete

WORLD ART
Dagli aborigeni a Picasso, cosa c’è da vedere di Lorenzo Perrelli

MUSEI E GALLERIE
Udine, pitture infinite di Flaminia Lais
Rinascimento lombardo di Jan Pellissier
Solo gioielli per Torino di Silvia Novelli

INDIRIZZI D’ARTE
Le esposizioni in Italia di Silvia Novelli

VIDEOARTE
Graham, ipnosi nel castello di Pino Romano

FOTOGRAFIA
Miti e biennali di Grazia Trincia

MERCATO & MERCANTI
Palazzo Altemps cambia mano di Marilisa Rizzitelli
Opere da certificare di Sonia Farsetti
Klimt e Modì da capogiro di Maria Luisa Prete

PERSONAGGI
Cultura, adesso si cambia parla Vladimir Luxuria, di Jan Pellissier

TALENTI EMERGENTI
Basta, visioni oltre l’etere di Maria Luisa Prete

DESIGN
Ai confini del creato di Francesco Talarico
Cinquantacinque piedi sopra i mari di Grazia Trincia

ARCHITETTURA
Esibizioni under 36 di Valentina Piscitelli
La torre di Gassman di Federica Finanzieri
Un tuffo nell’Umbria di Valentina Piscitelli

METROPOLIS
Tirivolo, la memoria sposa l’innovazione di Sophie Cnapelynck

STILE
Correre sulle note di Virginia Lucchese
Il gioiello di Henry di Francesco Talarico
Tremate, le Alfa son tornate di Jan Pellissier

CINEMA E TEATRO
La colazione dei cretini di Francesco Molica
L’incubo americano di Federico Larri
Mostri da palcoscenico di Raffaella Rossetti

MUSICA
Il lamento di Yorke di Francesco Molica
La lunga estate dei festival di Grazia Trincia

LETTURE E FUMETTI
Visca, la vita in un comics di Checchino Antonini
Visioni del presente di Checchino Antonini
I vecchi, la morte e l’occidente parla Tahar Ben Jelloun di Maurizio Zuccari
Cara Wally, perché sei così noiosa? di Francesca Bonazzoli
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n. 89 settembre 2012

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n. 88 luglio-agosto 2012

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Mark Kostabi,

Mark Kostabi (foto di Manuela Giusto)

«Il mio sogno d’artista? Esporre al Chiostro del Bramante. Il mio sogno si realizza qui, adesso».
Mark Kostabi muove sinuosamente le mani, rotea gli occhi azzurri al colonnato rinascimentale nel cuore di Roma, incespica con l’italiano ma il volto parla per lui. Ha in faccia la gioia di vedere le sue tele appese nel luogo che considera un po’ la sua Mecca d’arte, il punto cruciale della carriera.

Perché?
«Prima di tutto perché vivo vicino, poi vado spesso al bar della Pace. Mi siedo e guardo l’architettura della chiesa: Santa Maria della Pace è una meraviglia, ho sempre voluto fare una mostra qui, non c’è un luogo, un museo migliore, a Roma e forse nel mondo. Il Maxxi, il Macro o la Galleria d’arte moderna non sono incantevoli come queste stanze, questo cortile. È di una bellezza incomparabile. Dunque questo giorno è speciale per me, il mio sogno si avvera».

Roma, Los Angeles, New York, l’Estonia. Come hanno ispirato le sue opere?
«In Estonia non sono mai vissuto, anche se l’ho visitata spesso; sono nato a Los Angeles ma sono molto più ispirato da New York che amo, trovo la zona delle gallerie di Chelsea fantastica, e da Roma. Vivo qui otto mesi all’anno, quattro a New York. Ho due case, una grande a piazza Vittorio e una più piccola, a Campo de’ Fiori. Quando ho deciso che non volevo passare tutta la vita a New York ho scelto l’Italia. Anzi, alla fine è l’Italia che mi ha scelto, perché mi sento a casa, voi italiani siete molto accoglienti. Un amico di Milano mi ha detto: vai a Roma. Quando sono stato a piazza Navona ho capito subito che questa era la mia casa. Questo era dieci anni fa, oggi sono ancora più innamorato di Roma rispetto ad allora. In tanti miei quadri raffiguro l’architettura italiana. In questa mostra c’è una stanza dedicata all’architettura razionalista di Latina. Un’altra ha molti omaggi a De Chirico. Il suo è un classicismo semplificato, come il mio. L’Italia ha portato nel mio lavoro una sensibilità che non c’era. Prima verteva molto sull’alienazione, l’aggressione industriale, la tecnologia, il business. Con il mio trasferimento in Italia, nel ’96, è arrivata la celebrazione della vita, più riferimenti alla storia, all’arte, al manierismo».

La sua pittura è stata detta manierista, metafisica, surrealista. È d’accordo? E come definirebbe l’arte in generale?
«Sì, sono attratto dal manierismo, tipo Beccafumi, il Parmigianino. Quanto all’arte, è ciò che dice l’artista. Tutto può essere arte, questa non deve essere riconoscibile. Per me è libertà, magari per un altro può essere una prigione, non so. Nell’arte fai quello che vuoi, non devi seguire le regole come per un’altra professione: che so, il medico, il tassista. Però ognuno può essere un artista».

Pittore e compositore. Cosa unisce e cosa divide queste due forme d’arte.
«Non voglio essere vago ma quando compongo o dipingo c’è un equilibrio simile, per esempio uso il rosso come un accento, un accordo. Compongo la mia musica con molto bianco e nero, appena qualche macchia di colore qui e lì. Mi piacciono le melodia semplici, adoro Erik Satie. Musica e pittura sono più unite che separate, il disegno è come uno spartito, quello può diventare un quadro come questo una composizione. Ecco, voglio dipingere qualcuno che segue uno spartito per fare un quadro e un pianista che guarda un dipinto per eseguire una suonata».

Lei passa per essere molto castigato, preciso: non beve, non fuma, non si droga, è vegetariano. C’è una filosofia dietro o è un fatto d’immagine?
«Amo la vita, voglio vivere a lungo e voglio essere concentrato: tranne l’amore, non c’è piacere più bello di guardare un quadro o sentire un brano. È meglio di una droga. E poi non voglio sembrare superficiale ma avere successo è già una droga molto potente. Anche Sgarbi, che presenta la mia mostra, è intossicato dal successo».

Arte e mercato: serve un equilibrio, l’idea dell’artista maledetto non le appartiene, non può esistere oggi?
«Generalmente no, può esserci un’eccezione, ma marketing e pittura sono indissolubili, sono il piede sinistro e quello destro nel camminare. E generalmente è stato sempre così: un artista può avere un po’ di successo senza marketing ma è molto, molto più duro. È una sfida. È inevitabile essere coinvolti nel mercato, anche per quelli molto poetici».

Parliamo del Kostabi world. Un po’ la vecchia bottega rinascimentale rivista e corretta.
«Più di questo è una grande performance. Eventi come “Name that painting”, dove sono coinvolti giornalisti e critici, il pubblico. Una volta ho indossato un abito fatto di 17mila dollari in contanti per provocare, esagerare quello che fanno gli altri artisti. Non ho fatto altro che ripercorrere le orme di Giotto, Raffaello, Rubens, Warhol».

Uno dei suoi miti: l’idea di factory le è venuta da lui?
«Un po’, ma anche dagli altri che ho citato, non è una novità. La cosa nuova è che parlo molto, dico le cose apertamente e onestamente. È assolutamente importante avere un buon rapporto coi media, anche se chiudersi in una torre d’avorio può essere comodo».

Chi sono i grandi maestri del passato e dell’oggi, secondo lei?
«Caravaggio, Antonello da Messina, Pablo Picasso, Giorgio De Chirico, Andy Warhol, Enzo Cucchi. Tra i giovani talenti emergenti Fulvio Di Piazza, vive in Sicilia: lo comprererei per la mia casa. Poi mi piace Ubaldo Bartolini, romano. Forse è meglio dire cosa c’è a casa mia, perché sono anche collezionista: c’è Alighiero Boetti, Carla Accardi, ho tanti pezzi di Arman, Lim, un cinese che vive a Roma. Dire chi non sopporto è più difficile, apprezzo molto dedizione e professionalità, ma butterei dalla torre tanti dilettanti che vendono l’arte per la strada, mi piacerebbe andare lì con una ruspa. Però forse i migliori sono loro, chissà. Viviamo in un’epoca post kitsch, dobbiamo apprezzare questa roba anche se è difficile».


La mostra: “Un americano a Roma”
La personale più estesa mai allestita finora per Mark Kostabi prende vita al Chiostro del Bramante, nell’allestimento di 150 opere curato da Vittorio Sgarbi e Luca Beatrice. Un punto d’arrivo professionale, un sogno realizzato, come confessa l’artista che si divede tra New York e Roma, dove vive otto mesi l’anno. Accompagnano la mostra le musiche dell’ultimo cd realizzato ad hoc da Kostabi, “InKiostro”. Fino al 27 agosto, via della Pace, info 0668809035.

Hanno detto:

Vittorio Sgarbi
«Se Warhol aveva indicato una strada, l’arte come pratica commerciale, come organizzazione industriale destinata alla comunicazione globale, Kostabi l’ha sviluppata e adeguata con perfetta coscienza del suo tempo. Kostabi può vantarsi di essere il pittore più prolifico del mondo; la sua factory, Kostabiworld, è a New York ed è organizzata con criteri industriali, contando molti collaboratori che dipingono secondo le istruzioni del titolare. Anche se sembra una catena di montaggio, l’industria di Kostabi si sforza di produrre ancora manufatti come negli anni che precedettero Warhol; opere realizzate attraverso un certo grado di abilità manuale, come ai tempi di Giotto. Il massimo della modernità diventa così il massimo della tradizione».

Luca Beatrice
«Preciso, mai arrogante o sulla difensiva, Kostabi si discosta profondamente da quella tipologia (ahimé diffusissima) di artisti rompicazzo con cui è impossibile aver a che fare. Felice se apprezzi il suo lavoro, grato per la tua attenzione, persona gentile e squisita. Ce ne fossero, come Mark».