Inside Art Anno 3 Numero 24 Settembre 2006
Incontro con Diego Perrone
Cani in agonia, oche immobili, vecchi con monumentali corna in mano, o assisi mentre si lasciano superare da una lentissima tartaruga. E ancora, uomini seduti sul bordo di voragini, fissi a riflettere sul ciglio del nulla, o donne nude a piroettare attorno agli stessi buchi. Nudo pure Totò, in un video dello scorso anno che, assieme allo stampo di fusione d’una campana, fiore di terra esploso, rappresenta l’ultimo suo lavoro esposto alla fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Non sono carinerie, un’arte facile e bella, quella professata da Diego Perrone. Eppure, l’astigiano autore di figure inquietanti, metafore del vuoto e del limite contemporaneo, proprio grazie ad esse è stabilmente accampato nella pattuglia di punta delle giovani promesse artistiche del Belpaese.
Da Asti a Berlino passando per Bologna e Milano, con i corsi di Alberto Garutti: «Quella cosa si chiama arte e la puoi fare anche tu», diceva: è cominciato tutto da lì?
«È difficile stabilire un inizio, sicuramente quando sono arrivato all’accademia ero spaventato dall’arte, perché non la conoscevo. Quindi incontrare un docente che ti fa conoscere questa con gentilezza, ha rappresentato un cambiamento enorme, una carica e un'apertura fondamentali». Alla periferia, da cui proviene, ha dedicato un video. Cosa rappresenta questa per lei?
«Pensare in maniera periferica può anche significare non avere una esigenza di novità e mescolarsi in una moltitudine di linguaggi diversi. Questa direi che è l'attualità della periferia, preferisco pensare a questo piuttosto che alla sua geografia». Anziani e bambini, dunque il tempo, sono tra i soggetti dei suoi lavori. Perché?
«Il tempo forse viene recepito come un elemento importante nel mio lavoro, ma in realtà io non ci penso mai. A me interessa il fatto non la sua durata. Anziani, bambini sono elementi che ho usato, come prima ho usato gli animali e dopo i buchi». I buchi, appunto, come il vuoto, il limite, e la durata – dei gesti, del suono, del tempo o delle sensazioni – sono altri suoi temi centrali. Cosa può dirci? E c’è un filo conduttore?
«Penso che il filo conduttore che lega questi elementi sia l'uso di una forte componente fisica che li rappresenta. Per esempio, quando mi sono occupato di vuoto (I pensatori di buchi) l’ho fatto in maniera molto fisica, scavando per un anno nella terra. Crearmi un limite è servito per cancellare alla vista il paesaggio e immaginare un luogo più vasto. Penso a una vecchia foto che avevo fatto a una valigia appoggiata sul davanzale di una finestra. L’inquadratura era molto ravvicinata, le proporzioni della valigia quasi coincidevano col formato standard del negativo e ostruivano la vista del paesaggio che diventava come una cornice sottile attorno alla valigia». È stato definito un artista umanista. Cosa significa?
«Mai detto nulla del genere e neanche so cosa voglia dire. Quello che in maniera molto più modesta mi sento di dire è che sono più interessato agli aspetti “umani” dell’arte. «Avere meno informazioni permette di considerare cose più vaste e intense», ha detto in un intervista con Stefano Chiodi. Cioè?
«Mi riferivo, credo, al fascino di antiche teorie, ad esempio riguardo al cosmo, completamente distorte, dovute alla mancanza di conoscenza. Per esempio, pensare che la terra sia piatta o che sia come una cipolla ha più a che fare con l’idea di rappresentazione e quindi come attitudine vicina alla fantascienza. Un mondo immaginato che deriva da uno conosciuto. Uno non esclude l'altro se l'immaginazione la intendiamo come una forma di conoscenza e non come una fuga dalla realtà». Ha detto ancora: in un mondo così bisogna alzare il livello, rapportarsi a una capacità di fruizione che ha bisogno di regole diverse, di un impatto visivo forte. Vale a dire?
«Penso a quanto sono attuali artisti come Bruce Nauman, Mike Kelley, Paul Mc Carthy che hanno la necessità di scrollarti, di scuoterti che ti chiedono una partecipazione o una reazione. Poi penso a quanto la nostra capacità di reazione e di fruizione si sia raffinata e come apparentemente siamo in grado di sublimare fatti e immagini “forti”. Quindi a come una delle mie esigenze prioritarie sia di occuparmi della capacità di ricezione dell’individuo». La precarietà, il non finito e la messa in discussione dei valori dati sembrano al centro delle sue ultime opere. È cosi?
«Non è solo la precarietà e il non finito, direi piuttosto che per come sto lavorando ultimamente il momento del lavoro mi sembra più interessante, più potenziale che la contemplazione di una mostra installata e conclusa». Infine: il suo sogno d’artista.
«Ma sono gli uomini e le donne che sognano, quella dell’artista è una professione ».