Inside Art Anno 3 Numero 26 novembre 2006
Incontro con Paola Pivi
Dalla gigantografia dell’asinello in barca, placido e smarrito, alle zebre non meno stupite ma apparentemente fiere di starsene, ritte e pinte, in mezzo a una natura tanto simile a loro, nel cuore dell’Abruzzo, tanta acqua è passata sotto ai ponti della Biennale che, nel ‘99, l’ha insignita del Leone d’oro. Ma da quel premio condiviso con altre sei giovani artiste italiane, la crema del Belpaese – non ce ne voglia Antonio Stoppani e il formaggio che ha ripreso il motto dell’abate – Paola Pivi non ha smesso di fare il verso al reale, di stupire il mondo, di capovolgere cose e situazioni. Ma anche di mostrarsi com’è, uguale a tante sue coetanee, addirittura ritrosa quando deve parlare di sé, del suo lavoro. Del suo vissuto, diviso tra le nebbie di Milano, quelle di Londra e i ghiacci dell’Alaska. Dovunque la porti la sua voglia di fare, elaborare scatti capaci di mettere in moto cuori e cervelli.
L’Alaska, Alicudi fotografata in scala uno a uno. Che prerogative hanno questi luoghi per te? «Non conosco la parola prerogativa e non ho un dizionario, ora. Ci sono tanti posti e io vado dove mi sento meglio. Sono stata benissimo anche a Shangai». A Venezia nel ’99 sei stata tra le vincitrici del Leone d’oro. Di solito vince un premio l’artista capace di creare un “brand”, immagini forti. «Le mie immagini lo sono».
Dadaismo ciclopico; matrice concettuale, duchampiana. Questi i termini che la critica affibbia correntemente ai tuoi lavori. Ti ci riconosci? «Il mio lavoro si chiama il lavoro di Paola Pivi, fra i tanti termini dada è una mia passione e ciclope mi fa simpatia».
Jens Hoffman ha definito il tuo lavoro “dead pan”: qualcosa così com’è, senza arricchimenti. Tu come lo giudichi? «Diretto. Non saprei cos’altro dire». L’essenza di un lavoro non si puo’ definire, dici, e con la parola affermi di non avere un buon rapporto. Perché? «Il linguaggio dell’arte non è traducibile. Quanto alle parole, non arrivano mai in modo diretto come avviene con le opere, sono sempre approssimative. Quando ho finito un lavoro ho espresso, comunicato tutto quello che volevo fare. Con le parole, tra quello che non si riesce a dire e quello che non si capisce, si arriva si e no a un 25%».
Si dice che il nostro paese non abbia strutture capaci di valorizzare giovani artisti, specie a paragone dei paesi anglosassoni. Pensi che sia così? E cosa vorresti vedere realizzato a livello istituzionale, che consigli daresti a un giovane artista per farsi conoscere e apprezzare? «Io sono stata valorizzata e quindi non posso dire altrimenti. A livello istituzionalizzato vorrei vedere un aiuto concreto per le persone disoccupate, come c’è in Inghilterra, in cui pagano l’affitto e una quota settimanale a chi resta senza lavoro. Un giovane artista non è altro che una persona normale, l’unico consiglio è non smettere mai di pensare, cercare e dubitare».
La mostra al via alla fondazione Trussardi porta a Milano il mondo alla rovescia, recita la locandina. Qual è il tuo mondo, reale e ideale? «Il mio mondo è lo stesso degli altri, è questo dove viviamo insieme. Quello ideale sarebbe un mondo dove l’etica potesse essere una qualità diffusa invece che rarissima e dove ci si dimenticasse dell’accumulo del denaro come unica fonte di soddisfazione». Cosa troveranno gli spettatori nei grandi spazi dei vecchi magazzini della stazione di via Genova? «Questa personale è la più grande, quindi la più importante fatta finora. Troveranno il mio lavoro, ma è meglio vederlo dal vero piuttosto che in fotografia».