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Inside Art Anno 6 Numero 55 giugno 2009



Biennale. La fiera dei plebei furbi

Maurizio Zuccari

Daverio: «Dell’arte contemporanea non frega più niente a nessuno,alla gente basta la tv, a Venezia cose da contadini»



The Living Art Magazine


Sommario Inside art #55 giugno 2009

Notizie
Museo tattile, sotto a chi tocca di Silvia Novelli

Visto da
Cronaca per immagini di Ornella Mazzola

In cartellone
Expo mondo di Miriam De Angelis
Expo Italia di Silvia Bonaventura

Copertina
Philippe Daverio: Biennale, la fiera dei plebei furbi di Maurizio Zuccari
Mondi paralleli di Giorgia Bernoni

Primo piano
Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, viaggio in Italia di Massimo Canoro
I venti azzurri della Biennale di Giorgia Bernoni

Eventi & mostre
Marc Quinn, il bello del malessere di Danilo Eccher
“Unconditional love”, paura e libertà in scena l’amore di Maria Luisa Prete Venezia, a zonzo nel circuito off di Carmen Lopez Del Valle

Musei & gallerie
Lucca, gli spazi mercantili del contemporaneo di Alessia Cervio
“Art+Europe”, il gusto francese apre a Venezia di Maria Luisa Prete
Marie-Laure Fleisch, il regno della carta di Claudia Azzara

Vernissage
Le inaugurazioni in Italia di Silvia Bonaventura

Indirizzi d’arte
Le esposizioni in Italia di Maria Luisa Prete

Foto & video
Gli scatti da non perdere di Zoe Bellini
Videoarte da vedere di Anna Carone
Northwave, miracolo nordico di Claudia Quintieri

Inchiesta
Zestaurare l’oggi, chirurghi contemporanei di Giorgia Bernoni

Mercato & mercanti
Talent prize, secondo ciac di Zoe Bellini
La Biennale di Praga sfida l’Italia di Flavia Montecchi
Il primato di Art Basel di Marilisa Rizzitelli
Mercato, la tenace Primaverile di Silvia Novelli
Aste, più invenduti a maggio di Elida Sergi

Mipiacenonmipiace
Troppo anche per Andy di Aldo Runfola

Formazione & lavoro
Il fast food delle idee di Laura Andrenacci
Od’a, una palestra per l’arte di Paola Buzzini

Architettura
Garibaldi a impatto zero di Silvia Moretti
“Cohousing”, progetti di vita condivisa di Silvia Moretti

Metropolis
Contrada Guido, l’arte dell’agriturismo di Sophie Cnapelynck

Design & designer
Ikea, l’estetica del fai da te di Silvia Moretti
Esercizi di stile di Chiara Perazzoli
“Avant gardeners”, paesaggisti dal domani di Marilisa Rizzitelli

Letture & fumetti
Letterature, a Massenzio l’ottava edizione di Evaristo Manfroni
La zona grigia d’Italia nel j’accuse Aldrovandi conversazione fra Checchino Antonini e Alessio Spataro

Musica & visioni
Emma Re, dalla Cina con sudore di Simone Cosimi
Napoli apre il sipario di Elena Mandolini
Eric Besnard, intrigo internazionale di Annarita Guidi

L’opera benedetta
Hans Op hurrà! di Benedetta Geronzi
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Implacabili, come l’afa e l’acqua alta, con la Biennale arrivano a Venezia le polemiche.
Uno per tutti Francesco Bonami, tra i curatori dell’edizione del 2003, che dalle pagine del Riformista spara: «Il lavoro di quasi tutti gli artisti selezionati non è all’altezza di un padiglione che dovrebbe presentare il meglio dell’arte italiana».
Giudizio che non si estende all’esposizione diretta da Daniel Birnbaum, ma si limita alle scelte dei curatori palindromi: Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, accusati da più parti di aver messo in campo uno squadrone italiano – ben venti elementi – lungi dall’edizione stitica di Ida Gianelli, ma con l’occhio più attento al mercato che alla qualità.

Per Philippe Daverio il problema è più vasto. «Dell’arte contemporanea non frega più niente a nessuno, il nostro è un mondo atomizzato che ogni tanto ha bisogno di momenti di convegnistica generale. Ma la funzione vera della Biennale di Venezia non è dissimile da quella della fiera di Basilea, che è più seria perché è veramente mercantile, mentre la Biennale fa finta di non esserlo. L’arte contemporanea non interessa più perché per la prima volta le arti visive sono arretrate rispetto agli altri linguaggi artistici ed essa è entrata nel circuito vizioso nel quale era entrata la musica contemporanea negli anni Settanta, quando i compositori erano felicissimi di avere le sale vuote, così quei pochi erano garanzia di qualità intellettuale. Poi per fortuna sono venuti fuori personaggi come Michael Nyman, Philip Glass e Giovanni Sollima, che hanno riportato la musica all’attenzione del pubblico. Insomma, le arti visive sono diventate totalmente autoreferenziali, in un sistema finanziario che ha oggettivamente bisogno di tante risorse, ma poche in senso trasversale: bastano dieci clienti in più e tutti godono, così si sono bloccati i ponti con la società. Ma non è che l’Italia sia poco creativa nell’arte contemporanea e lo sia molto nella classe politica: questa marca il passo con la stessa stupidità e ansia del capitalismo italiano».

Ma l’arte contemporanea italiana non è morta, per il critico d’arte prestato alla politica (già assessore a Milano durante la giunta leghista, compete alle amministrative con uno spezzone della sinistra storica per la Città metropolitana nel capoluogo lombardo). «La creatività italiana è ben lungi dall’essere morta, ma da questo punto di vista il nostro paese deve ascriversi nella lista di quelli che Bush definiva canaglia, perché tende a essere così autoconservativo dei propri privilegi da escludere dalla competizione chiunque ne sia fuori.
Nelle accademie e università abbiamo fatto di tutto per tenere i ragazzi più disinformati possibile, negandogli il diritto alla qualità dello studio, frustrando qualsiasi creatività in fase di formazione. Prendiamo il caso di Luciano Fabro: nessuno può dire che non fosse un artista pensante, ma per trent’anni ha insegnato la stessa cosa all’accademia di Brera, trasformando un oggetto d’avanguardia in una reiterazione infinita, tutte le mattine rifaceva e insegnava l’Italia a testa in giù. Una fatica terribile. Da noi ci sono decine e decine di artisti fantastici, ma non portano a casa un copeco. Sopravvivono grazie alla pubblica carità, confraternite, amanti. Gli artisti più interessanti in Italia sono sciamani ritirati nel proprio mondo che sopravvivono in modo casuale, hanno due robe che li fanno campare o spendono poco».


A proposito di avanguardie, questa Biennale si richiama alla famosa avanguardia unica del Novecento italiano e al nome stesso di Marinetti. Per Daverio «quello al futurismo è un richiamo puramente formale. Quanto al Padiglione italiano, non lo tocchiamo proprio. La Buscaroli è una brava ragazza, ma è una sorta di esaltata del fascismo, Beatrice l’unica cosa che conosce è il football. Sandro Chia ha una sua gloria, Bertozzi & Casoni sono geniali, gli altri son quelle cose furbe da contadini, una tristezza. E le artiste presenti fanno parte di una lettura del femminismo che ha portato la maggioranza delle donne italiane a rispettare la scelta del Presidente del consiglio e a trovare sbagliato il comportamento della moglie. Non ci siamo proprio».

Organizzatore, due anni fa, di una sorta di controbiennale a Murano, dove gli aficionados ricordano una performance estemporanea di Maurizia Paradiso che usciva nuda da una fontana, stavolta il critico di Mulhouse, naturalizzato meneghino e “assunto” da Vittorio Sgarbi come bibliotecario a Salemi, ha optato per un profilo basso. «Quest’anno non faccio niente, e poi non ho neanche più tanta voglia di quella roba lì. In un momento di grandissima transizione mondiale, come questo, stiamo riscoprendo le nostre lingue e soprattutto che la globalizzazione non è unica né contrapposta alla glocalizzazione. Non saremo né glocal né global, sarà un mondo fatto di diversi colori, nicchie, con alcuni dati stabili: per fortuna il gin tonic è uguale su tutta la terra all’ora del crepuscolo. Noi torniamo a parlare italiano e io riesco anche a obbligare qualcuno a non utilizzare parole tipo governance, autorithy, quelle cose lì, dette peraltro da tipi che non sanno parlare inglese».

Allora immaginiamo un’altra Biennale, un’altra Venezia, un’altra Italia. «Un’altra Biennale potrebbe indagare le differenziazioni linguistiche che il mondo sta generando. In cosa uno del Gabon è veramente del Gabon e uno del Midwest è tale? Poi mi piacerebbe vedere alcune meccaniche dell’arte che si legano alle tensioni e alle ansie della politica, cosa che in qualche modo ho trovato a Documenta di Kassel. E m’interesserebbe una Biennale di ridefinizione semantica: cosa significa oggi fare arte? Esistono ancora pittura, scultura, architettura, cinema, teatro, più alcune performance, oppure qualcuno finge di fare un film, gli viene male e lo chiama video, presentandolo alla Biennale? Un’altra Venezia potrebbe avere più grinta, non cedere punta della Dogana a Pinault, ma questa ormai è una città in affitto, dovrebbe esserci una mutazione caratteriale. Invece l’Italia a volte penso che sia su una strada di decadenza inarrestabile. La parte maggioritaria del paese resta plebea e non gliene frega niente, gli basta la televisione. Siamo molto indietro e fra poco la distanza sarà incolmabile. In futuro saremo un paese di medio turismo, produttore di cuochi e di sarte. Resteremo sempre i migliori a fare gli spaghetti, è importante».

Insomma non c’è via di scampo, e forse è anche un problema precognitivo: non c’è più neanche l’esigenza di sapere, dubitare, criticare. «Che la voglia di sapere sia in calo è evidente, da noi più che altrove. Non c’è una reazione. L’Italia di solito funziona bene quando esce da una guerra civile, come dopo l’Unità d’Italia o la Seconda guerra mondiale, quando una parte elitaria riesce a darsi un’autorevolezza, a imporsi su quella agricola e povera del paese che adesso non è più agricola né povera ma ha la stessa mentalità dei bisnonni, quand’erano servi della gleba. Mica possiamo auspicare una guerra civile, è meglio non morire e lasciare che muoia il paese. Ma oggi questo non c’è più, resta una vastissima area a mugugno unico».