Inside Art Anno 6 Numero 59 novembre 2009
L’artista romano utilizza il chewing gum per parlare di ambiente e mondi possibili
Una casa studio a San Lorenzo, il quartiere capitolino di studenti e artisti, colma di oggetti rosa. «Già, quasi tutti regali di amici», racconta Maurizio Savini, l’artista romano noto per le sculture realizzate con il chewing gum dall’inconfondibile impronta cromatica. La prima domanda è quindi d’obbligo e riguarda la scelta del materiale. «La cosa più interessante per me – spiega Savini – era il colore, ho sempre pensato che il rosa fosse un colore del tutto artificiale. Il rosa è di plastica. Andavo alla ricerca di questo, ma non è stato semplice approdare alla gomma da masticare. Poi, come un trovatore, sono incappato nell’applicazione senza cercarla. L’ho trovata casualmente nella spazzatura: cinque scatole di gomme scadute gettate dal tabaccaio sotto casa. Dopo vari tentativi ho cominciato a perfezionarmi con un omaggio a Pino Pascali, realizzando una pistola Uzi. Nel 1997 mi hanno invitato alla festa dell’arte al Macro, curata da Ludovico Pratesi, insieme ad altri artisti contemporanei. Ho portato quella pistola, all’insaputa di Pratesi, ottenendo un grande successo. Da lì è iniziato tutto, anche se agli animali sono approdato solo nel 2008».
Un’opera per tutte, quella presentata alla Quadriennale di Roma, “Destined for nothing”, un orso appoggiato a una porta. «In questo caso – spiega Savini – si tratta di planimetrie ribaltate, stanze cieche dove non si capisce il dentro e il fuori, lì inserisco la lampadina come elemento bidimensionale. C’è un lavoro sul capovolgimento dello spazio e sulla luce della pittura. L’orso spinge la porta, non si capisce se vuole entrare o uscire. Lo spettatore lo guarda dallo spioncino e non capisce neppure lui se è dentro o fuori. Volevo trasformare lo spazio in qualcos’altro, utilizzando solo una porta».
Sarebbe riduttivo presentare Maurizio Savini parlando solo degli animali scolpiti con il chewing gum. La sua storia creativa è più complessa. «Non mi considero un eclettico – dice – ma credo che nell’arte sia fondamentale la sperimentazione. Non sono una farfalla che svolazza a destra e a sinistra, piuttosto faccio dei piccoli nidi come i castori. I mezzi che abbiamo a disposizione sono tanti. Quando penso a un progetto non necessariamente decido che devo realizzarlo in scultura». E sperimentazione sia. Di linguaggi. Di tecniche. Di temi. Fusione attenta di medium ogni volta diversi per realizzare progetti che siano il più possibile convincenti. Caleidoscopio di immagini accattivanti e ironiche proiezioni del reale e delle sue più toccanti urgenze, da quella ambientalista a quella relativa ai difficili ingranaggi dell’integrazione, passando per una riflessione dissacrante sui farraginosi meccanismi dell’economia.
Una produzione eterogenea, sostenuta dai tanti interessi di Savini: «Studi di architettura interrotti, laurea in storia dell’arte e dello spettacolo. Il passaggio – racconta – è avvenuto in famiglia, ho vissuto con mio nonno, architetto e scultore, che mi ha suggerito di studiare appunto architettura. Quando è morto sono passato a lettere, ma avevo un grande amore per il cinema e alla fine mi sono laureato con una tesi su Francis Bacon e David Linch. Fin da piccolo organizzavo spettacoli e teatrini, ho sempre dipinto e amato la musica, ho lavorato a teatro realizzando delle scenografie, facendo da assistente a Gianni Dessì. Ho ricevuto l’incarico come scenografo per il Maggio musicale fiorentino, ma ho lasciato questo mestiere perché mi sono reso conto che mi stavo allontanando da ciò che volevo fare realmente. Ho iniziato dipingendo olio su tela fino al 1996, poi ho realizzato performance e video, oltre alle sculture».
Un percorso sorretto dalle esperienze maturate nel corso degli anni. «La scenografia – afferma – è stata una scuola incredibile, mi ha aiutato moltissimo anche nell’ultima mostra alla galleria Oredaria, un posto molto bello ma difficilissimo, dove ho risolto il problema dello spazio grazie all’esperienza fatta lavorando per il teatro. Anche la musica è una parte fondamentale della mia vita». E proprio tra gli archi suggestivi della galleria romana si dischiude il nuovo lavoro dell’artista dove installazioni, sculture e quadri si intrecciano a creare un racconto coerente e dal sapore utopistico. «Nella mostra “Tomorrow” – spiega Savini – mi interessava dare una visione d’insieme su un domani vicino. Ho fatto un lavoro sull’economia, sulla geopolitica, sugli spostamenti che non vengono segnati sulle carte geografiche, di quei piccoli stati che si creano all’interno di altri stati, all’interno delle grandi città. L’Europa è un grosso contenitore di piccoli stati, è un paese giovane e gli spostamenti creano conflitti razziali e tensioni, come in Italia». «Da Oredaria – continua – parlo della figura del manager, soggetto che realizzo da anni. C’è in questa sorta di lavatoio ricreato nella galleria romana l’allusione all’uomo d’affari “ambientale” che non si occupa di ambiente, ma di trarre profitti con un nuovo modo di far circolare il denaro, una visione utopistica, anarchica e certo non specialistica, ma in cui credo. Anche in questo caso ho utilizzato quello che mi serviva che non è necessariamente solo la gomma americana».
Certo l’utilizzo di un materiale di largo consumo lo ancora alla categoria degli artisti neopop, anche se Savini su questo ha giustamente da ridire: «Non credo che all’arte servano definizioni, il problema è che abbiamo bisogno di classificazioni per fare ordine, per attuare delle scelte». E la sua scelta è quella di continuare a sognare, anche quando i sogni sono fatti di gomma.