Inside Art Anno 7 Numero 63 marzo 2010
Donne senza uomini, esordio alla regia di Shirin Neshat: «Amo i film in cui le storie personali sono intrecciate alla politica»
Dopo il Leone d’argento come migliore regia all’ultimo festival di Venezia, Shirin Neshat arriva nelle sale il 12 marzo con il suo primo film, Donne senza uomini. Tratta dall’omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur, la pellicola parte dal golpe che, con l’appoggio dei servizi segreti statunitensi e inglesi, abbatte nel 1953 il governo democraticamente eletto, a vantaggio dello Scià di Persia.
Perché hai deciso di fare un film? È stato un bisogno legato a un particolare momento della tua vita o del tuo percorso artistico?
«Le mie installazioni e i miei video somigliavano sempre più a storie brevi. Restavano visivi e concettuali, ma mi sono resa conto che rispetto a questi lavori stavano sviluppando uno stile sempre più narrativo. Ho sempre amato il cinema. Lo ritengo un’arte completa perché integra la struttura narrativa con la fotografia, il teatro, la musica, la coreografia. Soprattutto, sono innamorata del modo in cui il cinema cattura un pubblico vasto: con il potere insito nel raccontare una storia. Allora mi sono chiesta se avrei osato fare questo passo, sfidare me stessa realizzando un film che avrebbe potuto essere distribuito nelle sale. Credo di aver sperimentato una certa frustrazione legata ai limiti dell’arte visiva, al suo essere confinata a un pubblico ristretto, elitario, educato alla storia dell’arte. Ancora più importante è il fatto che un’installazione video ha seri limiti distributivi, mentre un film può essere acquistato per pochi soldi in dvd. Ecco la fascinazione che mi ha spinto verso il cinema e il mio primo film: da una parte il linguaggio, dall’altra la natura democratica di questo mezzo».
La cultura occidentale ha influenzato le tue scelte di regia?
«Sì, assolutamente. Classici come Andrei Tarkovsky, Ingmar Bergman, Krzysztof Kieslowski, Akira Kurosawa sono stati delle grandi fonti di ispirazione, e potrei dire lo stesso anche di registi più giovani come Wong Kar Wai, Elia Suleiman, Lars von Trier. Amo i registi visionari, poetici. Amo ancora di più i film in cui le storie personali sono intrecciate con la realtà politica».
Una volta hai detto che l’estetica dei colori può essere sovversiva. In Donne senza uomini la fotografia, l’uso dei colori raccontano lo stato psicologico e la situazione sociale e politica vissuta dalle tue protagoniste. È il punto di contatto tra videoarte e cinema?
«Ho sempre pensato che l’uso del colore sia molto problematico, nella misura in cui è meraviglioso e seduttivo. E ho sempre amato il bianco e nero, lo ritengo più adatto alla severità dei temi che affronto nelle mie opere. Ma per questo film sapevo fin dall’inizio che ci sarebbero stati dei colori: particolari però, in qualche modo drenati, asciugati. Il film è ambientato negli anni ’50 e volevo creare un’impressione di antico. Del resto ho sempre amato le foto di quel periodo, colorate a mano. Anche per questo volevo ricreare delle immagini capaci di riportarmi a quella nostalgia. Inoltre, nel giardino in cui si ritrovano le donne il colore aiuta a catturare il carattere selvaggio della natura, creando un’atmosfera interessante dal punto di vista psicologico».