Inside Art Anno 7 Numero 64 aprile 2010
La natura antropizzata e la manualità nelle opere dell’artista mantovano
Fortemente legato alla civiltà contadina. Sembra anacronistico, ma Stefano Arienti, nato ad Asola in provincia di Mantova nel 1961, non ha mai perduto di vista l’amore per il suo territorio e per la terra, per gli insegnamenti delle modalità artigiane. Un lavoro manuale accurato, genuino e non necessariamente tendente alla perfezione formale. Partire e giungere alla semplicità della natura, quella biologica, delle cose del mondo, strizzando l’occhio al genio di Alighiero Boetti, per Arienti maestro della semplificazione. In prossimità dell’ultima personale alla galleria Minini di Brescia, l’artista spiega le peculiarità del suo modo di fare e concepire l’arte.
La vita è fatta di incontri importanti. Quali hanno deciso o indirizzato il tuo percorso artistico?
«Incontrando Corrado Levi o Luciano Pistoni ho intuito qualcosa dell’arte contemporanea che non conoscevo e che ha iniziato a incuriosirmi maggiormente. Ma anche persone all’incirca della mia stessa età hanno avuto una grande influenza: Amedeo Martegani, Marco Mazzucconi, Massimo Kaufmann o Claudio Guenzani. In realtà molta predisposizione all’arte l’avevo già avuta dalla musica pop rock, ma anche extraeuropea ascoltata negli anni Ottanta, che raccoglieva suggestioni e pratiche dalle arti visive e le incorporava rimettendole in circolo. Ad esempio, posso dire di aver ricevuto l’influenza di John Cage o Andy Warhol proprio dalla musica, ascoltando Brian Eno o Terry Riley».
Quanto ti appartiene l’accostamento ad Alighiero Boetti?
«Boetti è stato uno dei primi artisti contemporanei che ho studiato con più attenzione su suggerimento di Corrado Levi. È uno dei pochi della sua generazione che ho conosciuto di più e ho guardato molto, in particolare nella sua attitudine a semplificare i processi e la produzione delle opere. Delegando la manifattura per il valore delle varianti inaspettate che possono migliorare l’opera, mentre oggi si cerca per lo più di avere dei prodotti ben fatti».
La manualità e l’accurata selezione dei materiali sono prerogative del tuo lavoro. Come avvengono le scelte? Da cosa sono ispirate?
«La confezione manuale deriva dal piacere dell’esecuzione e del contatto con gli oggetti incontrati. Non c’è mai un criterio preciso che guida le mie scelte, ma ho seguito tante strade differenti. Mi piacciono le immagini e gli oggetti che le portano: diapositive, poster, libri, cartoline, annunci, locandine che di solito colleziono senza un motivo preciso. Amo raccogliere oggetti trovati e mi piace personalizzare cose che sono generalmente disponibili a tutti. Mi sembra un esempio di come si può arginare il diluvio visivo della nostra cultura, trovando spunti poetici nel banale. Non nascondo di apprezzare la piacevolezza delle immagini della cultura di massa ma ho anche la passione per tanti immaginari diversi che scopro da diverse culture e tradizioni. Appartengo a una generazione che ha potuto avvicinarsi alla cultura anche con la televisione. Sembra un paradosso, ma da bambino o da ragazzo mi attiravano anche i programmi culturali e potevo seguirli liberamente, c’era un’offerta di sicuro più generosa di quella di adesso».
Le tue opere esprimono poesia e sensibilità non comuni. Raccontano e coinvolgono lo spettatore in percorsi in bilico tra passato e presente, esprimono l’amore puro per la natura. Qual è il tuo personale sentimento nei confronti della natura?
«Più che di natura vorrei parlare di paesaggio, in particolare di quello padano che conosco molto bene, ma che vedo sparire un po’ alla volta. Sono abituato a una natura largamente antropizzata e ho una minore frequentazione di quella natura dove ci si sente in minoranza. Oggi vivo in città, ma ho conservato l’attenzione alla campagna. Ho tentato di guardare il paesaggio urbano come se fosse un nuovo panorama naturale, dove anche le facce della gente ne sono un elemento caratteristico. In realtà natura è un concetto tutto emotivo e umano mentre i miei studi scientifici, fino alla laurea, mi hanno abituato a un mondo biologico con una sua logica precisa, che ha poco a che fare con l’estetica della natura».
L’artista vede oltre, cattura l’inespresso e l’indicibile. C’è qualcosa che il pubblico dovrebbe sempre cogliere, se non un messaggio, una qualche suggestione?
«Personalmente mi colloco sempre fra il pubblico rispetto all’opera d’arte. Come artista posso scegliere argomenti o materie che mi interessano, ma non basta per creare opere interessanti. Le opere hanno una loro comunicativa molto speciale e da artista posso solo cercare di guidarne la qualità o la riuscita, ma non posso dire di lavorare da solo, è sempre un’impresa collettiva dove molte altre persone sono coinvolte a titoli diversissimi».
Nell’ultima mostra il punto di partenza è la fotografia. Una reinterpretazione personale dell’immagine che porta a quale trasformazione?
«Si tratta di immagini trovate, sono grandi tappezzerie che invece di motivi decorativi portano grandi immagini fotografiche di paesaggio. Sono immagini stereotipate come quelle delle cartoline o dei calendari, magnifiche vedute come si vedono sugli stampati delle agenzie di viaggi. Sto usando questo materiale un po’ kitsch e inusuale da più di vent’anni, con interventi che nel tempo sono stati molto diversi: fori traforati ad ago, tessere di puzzle incollate, cancellature parziali con la gomma, collage al bisturi o a strappo, chiusure lampo cucite a filo, e infine semplici cuciture colorate o addirittura senza filo, la traforatura meccanica della macchina da cucire. Si tratta sempre di interventi piuttosto semplici e metodici che trasformano un oggetto d’uso, adatto a tappezzare una cameretta, in un manufatto dove la materia stessa del poster è irriconoscibile, e quell’immagine un po’ troppo usurata dalla comunicazione di massa trova un esempio poetico di vita propria».
A che punto del tuo percorso artistico pensi di essere e dove ti prefiggi di arrivare? Hai un particolare sogno artistico?
«Non ne ho la più pallida idea, ma mi fa piacere essere coerente con me stesso e continuare a fare quello che ho scoperto di saper fare. Ho avuto la complicità di moltissime persone che hanno apprezzato e indirizzato la mia attività e quindi non penso mai di rinunciare a questa forma di condivisione».
L’artista
Manipolatore di immagini
Stefano Arienti nasce ad Asola in provincia di Mantova il 4 agosto 1961, ma ben presto si trasferisce a Milano. Laureatosi alla facoltà di Agraria, intraprende la carriera artistica frequentando la Brown Boveri: una fabbrica milanese in disuso diventata luogo d’incontro e sperimentazione per giovani artisti. L’apertura al pubblico di questi spazi nel maggio del 1985 segna il suo esordio nel mondo dell’arte. Fin dall’inizio rivolge l’attenzione ai processi di analisi e manipolazione delle immagini e dei materiali ripresi dal mondo reale e quotidiano, trasformati e resi irriconoscibili. Nel 1989 afferma il suo interesse per i libri e il materiale cartaceo in genere: realizza ed espone allo studio Guenzani a Milano una serie di manifesti ottenuti con tessere per puzzle. Qui due anni dopo presenta una serie di libri manipolati, dove il testo è cancellato. Nel 1996 vince il primo premio alla XII Quadriennale di Roma. Arienti vive e lavora a Milano.
La mostra
Rappresentazioni di paesaggio e natura
Incentrata su una riflessione sui concetti di decorazione e pittura, la mostra di Stefano Arienti svela solo rappresentazioni di paesaggio e natura. Punto di partenza dell’artista sono immagini preesistenti, poster fotografici stampati in offset, manipolati e assemblati grazie a cuciture fatte a macchina. In alternativa Arienti utilizza anche sue fotografie che diventano la traccia da percorrere per l’utensile meccanico che va a incidere, segnare, disegnare la pietra. La trasformazione apparente della materia, il rinominare i materiali, l’intervento minimo sulle cose sono la cifra da cui partire per riuscire a comprendere un lavoro che tende alla pittura più di quanto superficialmente non tratti. Dal 10 aprile al 22 maggio, galleria Massimo Minini, via Apollonio 68, Brescia. Info: 030383034; www.galleriaminini.it.