Inside Art Anno 7 Numero 70 novembre 2010
Anche l’arte contemporanea celebra l’anniversario dell’unità: mostre sospese tra malinconia e denuncia beffarda
Cosa rimane del sogno unitario?
Nel 1861, dopo l’eroico sbarco dei Mille, la cacciata dello straniero e la conseguente costituzione del regno d’Italia, la nazione sembrava essersi costituita. E già allora qualche dubbio veniva, a ragione, sollevato.
Perché un paese diviso per millenni, adesso doveva farsi nazione universalmente riconosciuta?
Perché un popolo, frastagliato in mille rivoli linguistici e culturali, doveva condividere un solo sentire e un solo sentirsi orgogliosamente italiano?
I ragazzetti partiti da Quarto e gli altri che dopo di essi hanno combattuto dovevano crederci anche solo per motivi anagrafici: la gioventù amplifica le passioni e le rende inattaccabili in ogni epoca. Poi qualcuno più maturo, per calcolo e opportunità, ne dirige la potenza a proprio vantaggio.
Potrebbe essere una cinica spiegazione viste le tristi derive della penisola.
Il bianco della neve, il verde della speranza, il rosso del sangue versato su bandiere che oggi al massimo sventolano per onorare un campo verde e undici ometti vestiti d’azzurro. E mentre l’ultimo erede dei Savoia, baldanzoso, delizia gli spettatori del prime time della rete televisiva ammiraglia con passi di milonga e tango argentino, le mitiche camice rosse dell’unità vengono soppiantate da quelle verdi della secessione. Italia allo sbando, fragile e alla ricerca perenne d’identità.
Anche l’arte non può esimersi dal registrare l’attuale stato. In pochi, in verità, si cimentano nell’impresa.
E i temerari non possono che soffermarsi, con beffarda ironia e un adeguato taglio malinconico, sullo stato delle cose. Sono lontani i tempi del coinvolgente Bacio di Francesco Hayez, che suggellava un’alleanza foriera di libertà con l’Italia e la Francia, nell’ultima versione dell’opera, nei panni di giovani amanti appassionati.
Oggi l’unica Italia possibile sembra quella rappresentata da Stefano Arienti: fatta di cocci, a cui faticosamente si cerca di dare almeno la necessaria forma. Gli eventi espositivi dedicati all’anniversario della patria marciano sulla stessa linea.
La creazione artistica guarda allo stivale con rassegnazione.
Guarda e poi volta la testa dall’altra parte.
Sentimentalismi borghesi. Non è tempo di grandi passioni. Almeno non di quelle che dovrebbero animare le attese celebrazioni dei 150 anni dell’Unità. Oggi suona così ironico quel monito: «Qui si fa l’Italia o si muore».
Lo disse Garibaldi o era De Gregori?