Urban Anno 7 Numero 57 aprile 2007
In una mostra al Macro di Roma la contemporaneità fa i conti con il tema artistico per eccellenza
L’estetica dello stercorario domina il nostro tempo e i musei d’arte moderna sono diventati luoghi equivoci dove è esposto ogni genere di excreta. “Se i peli, gli odori e gli umori sono ossessivamente respinti nella vita quotidiana, essi prosperano, nella maniera più vistosa, in quei momenti particolari che sono le manifestazioni artistiche”: è la polemica tesi di Jean Clair, già direttore del museo Picasso di Parigi, sostenuta nel suo celebre pamphlet De immundo, pubblicato nel 2004.
Se non avete ancora avuto esperienza di quale ricco repertorio di escrementi, secrezioni e deiezioni organiche può raccogliere un museo, se l’arte da voi avvicinata fino ad ora rappresentava solo fiori, paesaggi e allegre immagini pop, provate con la mostra Into Me. Out of Me aperta al Macro di Roma dal 21 aprile a settembre. Nel grande spazio dell’ex mattatoio (quando si dice lo spirito del luogo!) sono esposte circa 120 opere di artisti di tutto il mondo che hanno messo al centro del loro lavoro il corpo umano.
Niente di nuovo, direte: l’arte l’ha sempre fatto, dagli antichi greci che hanno inventato il canone della sua bellezza con la Venere di Milo e l’atleta di Policleto, passando per Leonardo, che ne studiò la perfezione delle misure dissezionando i cadaveri, e Michelangelo, che esaltò la bellezza maschile mentre Tiziano si dedicò a quella femminile. Così via fino al Novecento, quando Duchamp mise i baffi alla Gioconda e Picasso dipinse i corpi de Les demoiselles d’Avignon come un assemblaggio di spigoli.
Dopo di che fu il diluvio: una gara a chi strapazzava, umiliava e deturpava di più il corpo. E del resto, che altro sarebbe stato possibile, fra un orrore e l’altro delle guerre mondiali? Ma non bastava ancora: negli anni Sessanta si passò dalla violenza rappresentata sulla tela alla violenza esercitata sul corpo stesso e nacquero così le performance dei body artisti che andavano dall’inghiottire psicofarmaci per provocare stati epilettici, come fece la serba Marina Abramovic, al tagliarsi braccia, mani e piedi con la lametta, come scelse di esprimersi Gina Pane fino alle mutilazioni e al suicidio dell’azionista viennese Rudolf Schwarzkogler.
La mostra romana – proveniente da Berlino e poi in partenza per New York, messa insieme da un curatore geniale come Klaus Biesenbach – si è dunque assunta il compito di raggruppare i migliori nomi di coloro che, negli ultimi quarant’anni, si sono concentrati sul corpo: Into Me, Out of Me (dentro di me, fuori di me) passa in rassegna sia l’interno (il bere, il mangiare, ciò che si espelle), che l’esterno: la riproduzione (amplesso, nascita) e la violenza (ferite, lacerazioni).
Preparatevi a contemplare foto di fellatio del giapponese Nobuyoshi Araki, di uomini che fanno pipì nei pantaloni di Knut Åsdam, operazioni di evirazioni maschili di Matthew Barney, scheletri appesi di Jake e Dinos Chapman, donne che succhiano piedi nella foto di Jen DeNike, individui con labbra cucite da vistosi punti di sutura nel video di Bob Flanagan / Sheree Rose, una riproduzione in bronzo dell’intestino di Kiki Smith e non stiamo a dire delle perfomance sessuali di Jeff Koons con l’allora moglie Cicciolina. Alcune opere sono meno esplicite con le immagini anche se le parole parlano chiaro (per chi sa l’inglese) come nel quadro di Jenny Holzer dove su un fondo bianco campeggia la scritta rossa a caratteri cubitali: “Someone wants to cut a hole in you and fuck you through it, buddy”.
Non c’è dubbio che l’effetto è simile a un pugno nello stomaco: anche per chi non ha ricevuto un’educazione da signorina vittoriana, l’accumulo di tutte queste immagini – una dopo l’altra arrivano a oltre cento – alla fine provoca un senso di nausea e stordimento.
E se anche accettiamo che questa sia arte, se anche crediamo che dopo due guerre mondiali, Hiroshima, Auschwitz, Chernobyl, il genocidio in Rwanda a colpi di macete, le fosse comuni in Bosnia, gli stupri etnici nel Darfur, la mucca pazza e il buco nell’ozono, sia impossibile dipingere le Veneri come Tiziano o scolpire l’armonia del corpo umano come Michelangelo o Canova, ci rendiamo conto tuttavia che in questa estetica dello stercorario c’è qualcosa che va oltre le ragioni del confronto con l’arte dei secoli precedenti. Non è solo il fatto che il corpo dell’arte riproduce la mutilazione del corpo stesso del mondo. Deve esserci ancora un’altra spiegazione. Perché c’è qualcosa di strano, di inspiegabile, nel fatto che tutte queste deiezioni, suppurazioni, fermentazioni e infezioni valgano in realtà milioni di euro.
Potrebbe essere normale, nello spirito del tempo, che quest’arte venga prodotta, ma poi dovrebbe essere altrettanto normale che fatichi a trovare un mercato e a essere esposta nei musei. Sarebbe logico, sarebbe comprensibile. Come è sempre stato. Una scena d’amore con Venere e Marte è sempre costata più di un quadretto con i mendicanti nelle strade della Roma del Seicento. E allora che cosa, che cosa può spiegare il valore della merda nell’arte che, come insegna quella inscatolata negli anni Sessanta da Piero Manzoni con tanto di scritta “merda d’artista”, vale a peso infinitamente più dell’oro?
Uno degli artisti più quotati, l’americano Jeff Koons, l’ha teorizzato chiaramente: “In un mondo dove tutto è basato sul denaro, ciò che fa un’opera d’arte è il suo prezzo”.
E chi stabilisce il prezzo? Forse una risposta possono darla la discesa massiccia nel mondo dell’arte dei pubblicitari (vedi Charles Saatchi, inventore della Young British Art e Damien Hirst), di grandi finanzieri come i francesi François Pinault e Bernard Arnault, a capo di marchi multinazionali del lusso, delle case d’asta Christie’s e Sotheby’s e di fondazioni artistiche, e infine la globalizzazione dei marchi museali. La loro rete economica, una forza capace di trasformare chiunque in un artista vendibile a 25/50 mila euro a foto, ha creato un’economia parallela dove anche i “rifiuti artistici” valgono milioni, esattamente come gli excreta dell’iperconsumismo delle nostre città, da smaltire quotidianamente a peso d’oro con un business ormai più redditizio di quello della cocaina.
È l’economia globale, bellezza: che sia arte, merda o scarpe non fa differenza per il profitto.