Urban Anno 7 Numero 58 maggio 2007
Con le sue fontane, Jeppe Hein ci spinge a reinventare il nostro rapporto con gli spazi urbani. Forse la rinascita della città passa attraverso l’acqua?
Lo scenario che l’urbanista e filosofo francese Paul Virilio prospetta per il nostro prossimo futuro nel suo libro Città panico (Raffaello Cortina editore) è più inquietante di quello immaginato da Ridley Scott per la Los Angeles di Blade Runner. La modernità – è la tesi di Virilio – ci sta portando verso la catastrofe del mondo “onnipolitano”, costruito cioè su megalopoli che sono in realtà città-fantasma sempre più prive di limiti geografici e identità. L’immensa periferia della Città-Mondo ci precipiterà verso un “iperterrorismo di massa” che scatenerà una guerra civile mondiale senza paragone con quelle locali di un tempo.
Mica roba da poco, insomma. E visto che Paul Virilio non è uno scrittore di fantascienza, ma un distinto professore che insegna al Collège International de Philosophie di Parigi, forse è il caso di prendere in seria considerazione la sua analisi. Riflettere, per esempio, su che cosa potrà salvarci.
Sarà la bellezza, come suggeriva Dostoevskij? Forse. Anche se la bellezza oggi non può più ovviamente essere declinata come nel Rinascimento o nel Barocco. È probabile, però, che una delle soluzioni possibili all’entropia globale delle città-panico stia proprio nell’arte.
Non a caso l’arte contemporanea sta sviluppandosi sempre più come arte pubblica, che interviene cioè fuori dai musei, e persino nelle questioni sociali e politiche.
Da questo mese anche Roma inaugura tre progetti di arte pubblica selezionati da Francesco Bonami, già curatore della Biennale di Venezia del 2003. Il filo conduttore dei tre interventi, sponsorizzati da Enel, che con questa iniziativa intende cominciare il suo impegno nell’arte contemporanea, è l’energia. Energia della mente che queste tre opere d’arte sapranno scatenare nel contesto in cui verranno inserite.
Comincia l’inglese Angela Bulloch (dall’11 al 25 maggio) che darà la sua particolare visibilità luminosa alla nuova architettura costruita da Richard Meier per l’Ara Pacis. Seguirà, dal 5 al 19 giugno, Jeppe Hein che installerà una fontana in piazza Damiano Sauli, alla Garbatella, e infine Patrick Tuttofuoco che, dal 18 ottobre al 4 novembre, inserirà un suo lavoro a piazza del Popolo.
Abbiamo chiesto a Jeppe Hein, trentatreenne di Copenhagen con studio anche a Berlino, di raccontarci il suo progetto.
Perché da tempo intervieni negli spazi pubblici installando le tue fontane?
“Il mio concetto di scultura è strettamente legato all’idea di comunicazione. Invece della percezione passiva e della riflessione teorica per me sono importanti le esperienze fisiche, dirette, del pubblico. Da un paio d’anni, ormai, sto usando elementi naturali come l’acqua per creare costellazioni architettoniche e sculture, perché l’acqua attiva l’attenzione mentale e la consapevolezza fisica della gente. I miei “water pavillion” sono un’architettura liquida, sostanziale e immateriale allo stesso tempo. Oppure possono essere considerati sculture sociali inserite giocosamente nella vita quotidiana”.
Le tue fontane sono state già installate in diverse città e anche a Venezia, nel 2003. Hai osservato come reagisce la gente?
“Queste installazioni offrono alla gente la possibilità di partecipare all’azione stessa dell’opera e di mettersi a confronto con l’inaspettato, persino nelle condizioni di interagire anche contro la sua volontà. Così le reazioni possono essere multiple: dal divertimento alla paura, dalla curiosità al dubbio, dalla meraviglia alla sorpresa. Inoltre le opere d’arte negli spazi pubblici aprono nuove possibilità allo spettatore di abbandonare la timidezza verso l’arte, mentre nei musei la relazione è strettamente definita e limitata”.
Sei stato alla Garbatella? Che impressione hai avuto del quartiere?
“Ci sono stato due volte negli ultimi mesi, ma la scelta dell’area si deve a Francesco Bonami ed Enel Contemporanea, e a me è piaciuta molto. Piazza Damiano Sauli è un posto dove la gente si siede per rilassarsi, parlare o giocare a calcio. In genere io cerco di riattivare, ridefinire e caratterizzare un luogo senza infrangere la sua autenticità originaria con l’imposizione di forme troppo dominanti. In questo caso ho anche riprodotto la geometria della piazza nella forma del padiglione d’acqua. Immagino che la piazza acquisirà un nuovo carattere quando la fontana sarà collocata al centro e la gente si siederà sulle panchine tutt’intorno a guardare l’acqua mentre altre persone ci cammineranno dentro o intorno. Specialmente alla sera, quando la fontana sarà illuminata, si creerà un’atmosfera intima e calda”.
Le fontane sono un elemento scenografico centrale nell’architettura barocca e in particolare a Roma ci sono esempi spettacolari. È stato difficile confrontarsi con gli esempi del passato?
“Naturalmente sono consapevole di questa eredità, ma sebbene in un certo modo faccio riferimento alla tradizione, dall’altro cerco di staccarmene e sviluppare un’idea di fontana diversa, per esempio dandole forme speciali e strutture insolite, dotandola di sensori che si attivano quando qualcuno si avvicina o che sollevano o lasciano cadere muri d’acqua. L’idea è che invece di limitarsi a guardarla, il pubblico è invitato a entrare dentro e a sperimentare la fontana”.
Che ruolo hanno dunque le tue fontane? Sociale, etico, estetico...?
“Poiché sono un’opera d’arte hanno innanzitutto un aspetto estetico che combina creatività e funzionalità e cerca di migliorare lo spazio artisticamente. Ma anche l’aspetto sociale è molto importante dal momento che intendono essere spazi di comunicazione, dialogo e interazione fra visitatori, opera d’arte e spazio. Personalmente ritengo essenziale che i miei lavori non siano mostrati solo in un contesto delegato all’arte, ma che siano anche visti e sperimentati da gente che non entra nei musei”.
La fontana di Roma è simile a quelle realizzate per altre città: significa che l’arte viene prima del contesto urbano?
“Non necessariamente. Nella riconfigurazione di uno spazio pubblico il mio sforzo maggiore è dedicato a integrare l’arte nella vita quotidiana di quella zona. Di conseguenza molti dei miei progetti pubblici sono pensati per quel preciso luogo, condizionati dall’architettura e dalla gente che lo abita. Si può dire che cerco di rinnovare lo spazio creando energia, che passa idealmente dall’opera d’arte alla gente al contesto urbano. A questo scopo l’acqua è un materiale perfetto perché è molto energetica, specialmente se sparata da getti che partono dal suolo come avviene nei miei padiglioni d’acqua”.
Come pensi che si potrebbero rendere le città più belle e vivibili? Che cosa ci manca di più oggi?
“Prima di tutto mancano luoghi di comunicazione. Non ci sono liberi spazi di creatività e progettazione che rendano più facile la comunicazione fra la gente e lo spazio circostante”.
Pensi che l’arte potrebbe essere d’aiuto a migliorare la qualità della vita?
“Sì, certo. L’arte esercita molto fascino sulla gente; crea situazioni di gioia e di gioco, momenti rilassanti e opportunità di interazione che possono portare la gente al sorriso. Come diceva Charlie Chaplin un giorno senza un sorriso è un giorno sprecato”.