Urban Anno 7 Numero 59 giugno 2007
Ossessionato come sempre dall’immortalità, soprattutto la propria, a Venezia Damien Hirst si presenta con la mostra New Religion. Una gelida ventata di empirismo britannico su un tema bollente come non ma
Saranno tante le star dell’arte contemporanea che sfileranno a Venezia sul palcoscenico della Biennale, ma è inutile negarlo, la stella più brillante, quella che gode della maggiore risonanza mediatica, quella che anche i non addetti ai lavori hanno almeno sentito nominare per la sua opera più celebre – lo squalo tigre immerso in una vasca di formaldeide – è lui: Damien Hirst.
Ex enfant terrible (ha vinto il più prestigioso dei premi, il Turner Prize, a 30 anni, nel 1995), è ora un milionario signore di mezza età che ha abbandonato droghe e alcool per ritirarsi a vivere da buon padre di famiglia (ha due figli) nelle 300 stanze della sua tenuta di Toddington, a Cotswolds. Naturalmente senza smettere l’attività artistica, così frenetica da dare lavoro a 60 collaboratori con i quali ha preparato la mostra allestita nel goticheggiante palazzo Pesaro Papafava dal 9 giugno al 4 agosto, a cura di Valerio Dehò.
Sotto il titolo New Religion, la rassegna voluta da Damiani editore in collaborazione con la galleria Michela Rizzo e la Paul Stolper Gallery, presenta una trentina di opere che identificano simboli religiosi (la croce, il sacro cuore, la Trinità ecc.) con vari tipi di pillole medicinali così che l’ostia eucaristica, per esempio, è diventata una enorme pasticca di paracetamolo scolpita nel marmo bianco.
La religione più potente, sostiene Damien Hirst, è oggi la scienza: ci si affida a essa nella speranza di poter guarire o prolungare la vita e anche di trovare un senso al buio in cui brancoliamo. Così anche le stazioni della Via Crucis – il cammino verso il Calvario e la morte – sono interpretate come altrettanti tipi di medicamenti. Portando la logica di questo pensiero alle sue estreme conseguenze, Hirst è arrivato a reinterpretare l’intera Bibbia attraverso piccole pastiglie di ogni forma e colore: al Pentateuco, alla Genesi, al Deuteronomio, ai Vangeli corrispondono diversi medicamenti, ognuno per una specifica malattia.
Persino l’iconografia della Trinità è trasformata in un grafico che indica le percentuali di composizione di un farmaco: 33.3 per cento il Padre, 33.3 per cento il Figlio e 33.3 per cento lo Spirito Santo.
Il tema di fondo, come sempre nei lavori di Hirst, è la morte e il desiderio impossibile dell’immortalità, ossessione dell’artista fin da quando era bambino, come ha lui stesso raccontato. Il riferimento più esplicito è il teschio di un undicenne, comprato attraverso Internet e ricoperto con una fusione di argento. Ma a brillare, grazie alla lucidatura che ha eliminato il nero dell’ossidazione, sono solo i denti, molti denti. Il bambino, infatti, ha tutti quelli da latte più, nelle gengive scoperte, già pronti quelli definitivi che avrebbero sostituito i primi.
Una visione da brivido, ma di una tristezza infinita. Mentre suscitano orrore puro le cinque serigrafie The wounds of Christ: foto di cadaveri comprate dalla Science Photo Library e modificate al computer in modo che sangue e ferite compaiano nel costato, nei piedi e nelle mani, in una rievocazione iper realista del corpo di Cristo. Nessuna venduta, finora. E il primo a non stupirsene è l’artista.
Diciamolo chiaramente: fra cadaveri e pillole, l’effetto estetico non è certo esaltante. C’è qualcuno che ha mai giudicato fantastica la propria scatola delle medicine o una visita all’obitorio?
Damien Hirst non ha problemi ad ammetterlo. Con la sua consueta sfrontatezza, al giornalista Sean O’Hagan che lo intervista per il catalogo della mostra con assoluta mancanza di ironia, attribuendo a ogni opera significati reconditi e profondi, Hirst risponde beffardo: “Io opero all’estremità più alta del mondo dell’arte. Quindi posso farmi avanti con qualsiasi cosa e tu non penserai mai: È un merdoso biglietto di compleanno. Perciò posso prendere un biglietto di compleanno e rappresentarlo in forma nuova a te, e tu dirai: Cazzo, dev’essere importante se è stato messo qui”.
Lo sprovveduto O’Hagan (che risponde con uno stucchevole “Sul serio?”) evidentemente ignora che da 100 anni le avanguardie si dedicano alla distruzione della sacralità dell’arte e rimane basito. Ma allora perché Damien Hirst è davvero fra i più grandi artisti del nostro tempo se è lui stesso a mostrare la nudità del re?
Perché ha completamente cambiato il ruolo dell’artista: non più pedina nelle mani dei mercanti d’arte, dipendente da mostre, gallerie, case d’asta. Da comparsa, è diventato lui stesso protagonista del mercato: è diventato gallerista, collezionista, proprietario di un ristorante (che si chiamava guarda caso Pharmacy), e quando le sue opere sono state messe all’asta dal suo maggiore collezionista, il pubblicitario Charles Saatchi, le ha ricomprate per cifre astronomiche sostenendo così il loro valore. In breve, come ha scritto Waldemar Januszczak giustificando la scelta di ben due opere di Hirst nella personale classifica delle 20 destinate all’immortalità pubblicata nel supplemento culturale The Sunday Times, l’arrivo di Hirst non è stato nulla meno di un cambiamento storico.
È vero, ma non esattamente. C’è un precedente: Rembrandt. Grande manager di se stesso, l’olandese riusciva a guadagnare notevoli quantità di soldi facendo leva sulla psicosi del collezionista, rimasta uguale, nel Seicento come oggi: possedere le rarità e considerare tanto più desiderabile un pezzo quanto più il mercato gli attribuisce valore.
Per assecondare tale psicosi, Rembrandt eseguiva diverse varianti della stessa acquaforte che diventavano così ricercatissime dagli amatori: nessuno si considerava un vero collezionista se non possedeva, per esempio, la Giunone con e senza la corona.
A Rembrandt bastava solo modificare la stessa lastra: il lavoro era poco e il guadagno molto. Inoltre, come Hirst, anche Rembrandt ricomprava le sue incisioni in modo da renderle rare sul mercato e poi fissarne il prezzo di vendita a piacere: fu proprio grazie a questa strategia speculativa che l’acquaforte con Cristo che guarisce gli ammalati divenne nota come la “Stampa dei cento fiorini”, una cifra esorbitante.
Nulla è cambiato nel XXI secolo. In una conversazione, pubblicata su The Times, fra Damien Hirst e l’artista Peter Blake, quest’ultimo si lamentava che un facoltoso collezionista, dopo avergli promesso di andare in studio a vedere le sue ultime opere, fosse sparito. “Raddoppia il prezzo”, gli consigliava Hirst, “vedrai che arriva. È così che io faccio sempre”.
Ma non fatevi illusioni né fatene il vostro stile: anche l’arroganza è un’arte e per toccarne tali punte di spregiudicatezza, bisogna aver assorbito il tossico veleno del cinismo.