Arte e Critica Anno 15 Numero 56 settembre-novembre 2008
Una personale al MAR di ravenna, a cura di Claudia Casali, offre l’occasione per riflettere su alcuni aspetti del lavoro dell’artista
Michelina De Cesare è nata il 28 ottobre 1841 a Caspoli, in provincia di Caserta, ed è morta a Monte Morrone il 30 agosto 1868. Brigantessa dell’Italia unitaria, della sua vita e della sua persona si sa qualcosa soltanto grazie a qualche traccia presente negli interrogatori di altri briganti e poi, soprattutto, in un resoconto ufficiale della sua uccisione: “La rea donna aveva combattuto come una leonessa. Colpita al capo, la femmina morì digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l’orrore dei misfatti compiuti” (1).
Reginalda Cariello è nata a Padula, è contadina, ed è compagna del brigante Trezza; malgrado i pesanti capi d’accusa che pendevano sul suo capo, grazie alla brillante oratoria del collegio di difesa costituito dai sottotenenti Gustavo Polloni e Antonio Polistina, viene assolta nell’aprile 1865 per mancanza di prove dal Tribunale Militare di Guerra di Potenza; si dice che dopo l’assoluzione sia fuggita in America.
Giuseppe Caruso, brigante lucano della banda del comandante Crocco, si consegnò alle autorità nel 1963; Giuseppe Petrelli morì fucilato dai bersaglieri a Melfi nel 1864 insieme a Schiavone e Rendina a seguito del tradimento dell’ex amante di Schiavone Rosa Giuliani; Settimio Menichetti fu brigante nella malarica terra di Maremma nella seconda metà dell’Ottocento…
Un ciclo di quadri (Bandits) del 2005 esposti al Kunstverein Bremerhaven, in Germania, ritrae questi briganti in una sospensione che si fa tratto congiuntivo tra la matrice fotografica dell’immagine (alcune foto sono quelle scattate dopo la loro cattura) e la densità di problematiche socioculturali ed esistenziali che quelle figure portano con sé.
Chi sono invece Edda e Garibaldi? Cosa si sa di loro?
Che erano stati amanti mentre combattevano come partigiani. Si rincontrano dopo decenni, parlano, ballano e immediatamente le loro emozioni e i loro corpi tornano ad unirsi… (Passeggiata in Paradiso, 2002)
Ma c’è anche il grande eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, e ci sono mille magliette dipinte a mano con la sua effigie all’altezza del cuore… “Garibaldi viene un po’ dalle foto delle scritte che ho cominciato a fare qualche anno fa, con la macchinetta fotografica sempre con me, e poi sono diventate una sorta di blob per immagini, montate in una sequenza che gli desse un senso in più. Di lui ho cominciato a raccogliere cose mentre stavo in giro. Mi sono accorta che dovunque capitavo c’era una statua e una piazza dedicate alla sua figura, ti parlo di Buenos Aires, dell’Uruguay, di New York, e ovviamente di Europa e Italia. Pensavo che fosse un piccolo eroe italiano, e leggendomi un po’ di storie mi sono accorta che alla fine dell’Ottocento era uno dei più famosi eroi mondiali, una specie di Che Guevara del tempo. Ora la sua celebrità si è persa in canzoncine con una vocale sola... ma fare le magliette era un po’ come ridare attenzione anche a una idea di eroismo e fanatismo. Le magliette sono rosse come quelle più celebri e credo più vendute al mondo del Che, ma sono fatte tutte a mano, con la faccia di Garibaldi sul cuore. C’è tutto un sentimentalismo della rivoluzione, del combattere con e per un ideale, che ora non ha più gran senso. E infine anche il fascino della massoneria...”
Mi sembra che alcuni personaggi e alcuni temi toccati in questi anni da Stefania Galegati si possano senza troppe forzature riunire all’interno di un contenitore cui è bene non dare confini precisi affinché ognuno possa trovarveli – magari aiutato da Ivano Marescotti (Orizzonte assoluto dell’evento, 2001), esperto in scontro/incontro con grandi e invisibili contenitori di realtà e pararealtà. In questo contenitore, accanto ai Briganti vedo l’Amazzone ferita (2005), vedo Garibaldi (Mille, 2007), vedo i due ex partigiani, ma vedo anche la spada di meteorite (Senza titolo, 2001) e il samurai radioattivo (Senza titolo, 2000). “Sebbene aboliti nel XIX secolo, i samurai sono stati una classe militare che per lungo tempo ha goduto di uno status sociale elevato in Giappone e continuano a simboleggiare un’ammirevole dedizione a un codice etico che richiede lealtà, autodisciplina e rispetto reciproco” (Anne Ellegood, Electa, 2005).
Energia, coraggio, pericolo, armi, potere, eroismo. E in più un po’ di mistero, come per le serie fotografiche dei nani o quelle pittoriche dei fantasmi.
Da Shy Hamburger del 1999, dove si assiste ad un susseguirsi di tavolate di commensali immobilizzati in un gesto, a Passeggiata in Paradiso del 2002, il corto dei due ex partigiani girato con tutti i crismi, o The hole del 2006, realizzato a Trento parodiando le tante produzioni recenti per la televisione, e arrivando alle stolen picture di Notes by chance, il lavoro “in movimento” di Stefania Galegati mi sembra aver seguito un percorso che da istanze e registri teatrali è passato a cliché cinematografici per approdare alla realtà tout court, in una orgogliosa prassi cleptomane (stolen picture_stolen music_stolen title) che ha ridotto al minimo strumenti e trucchi di mestiere, per far sì che sia la realtà stessa ad autocommentarsi ma anche a suggerire, talvolta, grazie ad un dichiarato e semplice lavoro in postproduzione, il suo contrario, o comunque una possibile dimensione di pararealtà.
In questa realtà restituita come sequenza assordante di flash ora più crudi, ora più teneri, ora molto divertenti, ora addirittura impertinenti (tutti in Notes by chance, da #1 a Implosion a Animals a L’ora del sud), con un alternarsi di sottolineature visive che vanno da piccoli incidenti stile Candid Camera a meste riprese come quella delle donne che sfilano in Plaza de Majo a pause/controcanto rappresentate da primi piani di animali, bellissimi, annoiati o lucrezianamente affacciati a compatire l’inutile affannarsi degli umani, in questa realtà dicevo è come se l’artista nelle ultime stagioni abbia deciso di immergersi senza inibizioni, a coglierla anche laddove è maleodorante, ma più spesso dove è coatta e ipocrita, dal meraviglioso mondo dell’informazione televisiva (si vedano i divertentissimi volti e debolezze dei telecronisti di Notes by chance #1) alle tante situazioni di religiosità mercificata.
Ma nel riportarcela così come la censisce nelle migliaia di foto e girati che come una mcluhaniana estensione del suo occhio e della sua sensibilità accompagnano ormai il suo quotidiano, l’artista esprime con una rabbia tinta di ironia una critica tagliente agli standard percettivi-etici-emozionali che in un processo di anestetizzazione umana durato alcuni decenni si sono sovrapposti alla realtà stessa. Un esempio tra i tanti, che torna spesso in Notes by chance, è quello dei turisti che vivono le emozioni, i profumi, i piaceri del viaggio soltanto quando, al ritorno, lo rivivono attraverso gli scatti e le riprese, essendo stati troppo impegnati durante il soggiorno a riprendere piuttosto che a vivere.
A questo punto, la sua scelta recente di vivere a Palermo, dopo Milano, Berlino, New York e Roma, penso risponda alla sua esigenza di approssimarsi sempre più alla radice delle cose, dei sentimenti, in quell’energia libera e prorompente che sgorga da quel mix di tradizioni popolari e lotta per la sopravvivenza, residui principeschi e malavita, pregiudizi religiosi e must televisivi che contraddistinguono il capoluogo siciliano. Un’istanza prossemica che assume i caratteri della deriva, in una sorta di psicogeografica cattura di un reale filtrato da una lente bifocale, o forse, meglio, giacché siamo in Sicilia, chiedendo in prestito il suo occhio strabico al celeberrimo Mattia Pascal.
Per tornare infine ai contenitori invisibili di cui Ivano Marescotti è gran conoscitore, credo si possano avvicinare il nano dell’opening alla Tour Fromage di Aosta (2003) a progetti irriverenti come “adotta un artista a distanza”, le mostre e i libri curati da Norberto e Scintilla alla storia d’amore telematica di Anna Mattei e Carlo Rinaldi o alle immagini di vernici internazionali che passano velocemente in Animals. Una lettura infastidita ma divertita, ruvida, accusatoria ma non retorica, dei rituali così come delle crudeltà del sistema dell’arte, guardandolo comunque da dentro e rivendicandone l’appartenenza, forse perché, come ha scritto Vito Acconci diversi anni fa: “Quello che ancora mi attira dell’arte è il fatto di essere un mondo incredibilmente privo delle caratteristiche di ogni altro settore. L’arte può attingere dappertutto. Può utilizzare qualsiasi cosa, il che è ciò che mi piace di più nel fare arte. In questo senso, trovo difficile situarmi al di fuori del campo artistico” (2).
Note
1 Jacopo Gelli, Banditi, briganti, brigantesse nell’800, Firenze, 1931
2 “Intorno all’arte e agli artisti”, intervista a Vito Acconci di Lynn Blumenthal e Kate Horsfield in Valentina Valentini (a cura di), Le pratiche del video, Bulzoni ed. 2003 (originariamente “On Art and Artists” in Profile, “Vito Acconci”, vol.4, Chicago, estate 1984)