Arte e Critica Anno 15 Numero 56 settembre-novembre 2008
Se il cinema avesse saputo decostruire i modelli di verità acquisiti avrebbe potuto produrre esso stesso verità, affermava Jean Rouch. Proprio all'etnologo e cineasta francese e al suo cinéma verité, Marine Hugonnier ha dedicato The Secretary of the Invisible (2007), premiato di recente al MAMCo di Ginevra.
Il film come strumento di immersione e non di registrazione asettica, così lo intendeva Rouch, come metodo d’indagine ravvicinata della realtà per una cineantropologia condivisa, la cui efficace penetrazione non significasse aggressività, ma piuttosto empatia che coinvolgesse l’autore e il suo soggetto aprendo uno spazio critico di confronto. Un modo emotivo di interpretare il documentario, l’intuizione di uno sguardo alternativo. Anche Marine Hugonnier infonde al proprio lavoro un’impronta antropologica, e nell’indagare le modalità del vedere (si è parlato di “antropologia delle immagini”) adotta lo stesso imperativo alla decostruzione. La nota trilogia composta da Ariana 2003, The last tour 2004 e Travelling Amazonia 2006, che non nasce in modo programmatico ma dalla necessità progressiva di approfondire tematiche concatenate, affronta lo sguardo soggettivo allargandosi poi a ciò che vi si apre innanzi, così il concetto di paesaggio si fa centrale nella sua ricerca, inteso non solo geograficamente ma anche sotto il profilo storico-culturale e sociale.
La partenza è remota, prende il via dalle considerazioni su un’invenzione antica e di enorme impatto come la prospettiva monofocale, operazione politica di controllo che costituisce la base della percezione spaziale occidentale – da mettere in discussione in favore dell’ipotesi di una prospettiva libera, di una visione fluida. Alla stessa logica di indagine e scardinamento delle convenzioni è assimilabile il lavoro Towards Tomorrow dedicato agli scarti spazio-temporali, in cui Hugonnier fotografa l’immaginaria linea internazionale del cambio di data nello stretto di Bering.
Così il confronto narrazione/geografia e il modo in cui i due elementi si influenzano a vicenda tornano continuamente come chiave di lettura, e nel caso, non isolato, di Territory I-II-III (2004) accade nell’intreccio significativo di geografia, architettura, storiografia e politica.
L’approccio emotivo di Rouch filtra nei film dell’artista francese sotto forma di pausa: durante la narrazione si aprono dei buchi neri, degli stop alla visione, vere sospensioni, momenti “restituiti allo spettatore” che creano una frattura nella logica narrativa in favore di un’assenza votata a sollecitare l’immaginazione e la consapevolezza. Quasi un vuoto di potere nello spazio e nel tempo, funzionale al lavorio decostruttivo (di matrice lettrista?).
Nell’imposizione del soggettivo si potrebbe leggere un’ipotesi di alternativa all’oggettività come unico atteggiamento valido nella comprensione e restituzione del reale, che trova nell’approssimazione al soggetto e nell’immersione emotiva il senso stesso dell’immagine, quella qualità che può elevarla dal flusso muto del presente mediatico. Un incoraggiamento a recuperare un’ideologia ed un impegno.