Arte e Critica Anno 15 Numero 58 marzo-maggio 2009
Su narrazione e concettualismo, verità e costruzione
Conversazione con Omer Fast, uno tra i più interessanti film-videomaker della nuova generazione, in occasione della sua personale al Kunstverein di Hannover.
CL Uno degli aspetti principali dei tuoi film e video è la tensione con cui l’esperienza personale diventa storia, e come le storie si sviluppano attraverso i processi di selezione, registrazione o eliminazione di elementi. Da dove nasce il profondo interesse per questi processi?
OF Ho sempre avuto difficoltà a immaginare l’arte senza far ricorso alla narrazione. In genere è ciò che fanno critici e teorici. Ma dal momento che non sono un critico, né particolarmente esperto in teoria e storia dell’arte, ho spesso dovuto accontentarmi di un po’ di informazione, pseudoverità, invenzioni e altro che in qualche modo ruotano attorno all’opera d’arte rendendola memorabile, anche piacevole, come le molliche si attaccano a una crocchetta o a una bella cotoletta impanata. Certamente è questo quello che fa chiunque non sia uno specialista. Ma per molto tempo ciò mi ha anche fatto sentire abbastanza in colpa. Durante i miei studi universitari ho maturato la falsa convinzione che ci fosse un giusto modo di fare arte, e che questo fosse pressappoco quello che facevano minimalisti, concettuali e loro epigoni: l’opera fredda e decisa, non troppo ricca, con una forte base teorica. Certamente non qualcosa che divagasse su un aneddoto personale, che desse la sensazione di essere convenzionale, confessionale, terapeutico. Per quanto sbagliato, questo “divieto di narrazione” si è consolidato divenendo una costante del mio processo creativo, una sorta di contrappunto alle storie da cui ero attratto quando finalmente riuscivo a produrre il mio lavoro. (Ovviamente, tutti noi abbiamo in testa questi codici repressivi. Se non puoi liberartene, la cosa migliore da fare è cercare vie creative di negoziazione, vecchi trucchi per aggirarli, per piegarli a proprio vantaggio). Così, questo senso di colpa nei confronti della narrativa si esprime attraverso strutture che fondamentalmente agiscono da contenitori di storie, facendogli da contraltare. Esse nascono applicando tecniche semplici inerenti alla scrittura e al montaggio: eliminare, copiare, incollare, ripetere e variare. Nel tempo, il “divieto di narrazione” si è sicuramente ammorbidito. Ma è diventato a tal punto parte integrante dell’opera che non sono più sicuro se le storie che racconto sono effettivamente la scusa per elaborare il mio desiderio di limite e struttura (per trovare modi di rendere difficile il fare qualcosa di naturale e intrinsecamente semplice come raccontare una storia) o se in fondo io non sia uno scrittore frustrato che lavora col mezzo sbagliato
CL Nelle tue opere, realtà personale e oggettiva si fondono in un intreccio in cui è difficile collocare la verità. Il tuo interesse per il fatto che significato e verità possano essere forgiati ti spinge a lavorare con il film, un medium che date le implicazioni tecniche sembra essere quasi ideale per analizzare e decostruire modelli di verità e significato?
OF Film e video sono certamente adatti a guardare alla realtà contemporanea. Non solo perché possono riprodurne le immagini e i suoni in modo preciso e dettagliato, ma anche perché costituiscono sempre più la vita stessa; forniscono l’essenza dei nostri ricordi e fanno da sostrato alle nostre interazioni, offrendoci il linguaggio, le norme e gli stili con cui relazionarci agli altri. Detto questo, non penso che la “verità” sia così importante per me come lo è ad esempio per un giornalista curioso o anche per un pubblicitario. L’idea che realtà e significato siano estremamente aleatori, specialmente di fronte all’immagine fotografica, è già stata espressa da molti ed è diventata il suo stesso cliché. Per citare Susan Sontag: “Le fotografie avevano il vantaggio di unificare due caratteristiche contrastanti. Le loro credenziali di oggettività erano intrinseche. Nonostante ciò, esprimevano sempre, necessariamente, un punto di vista”. Rischiando di essere poco chiaro (specialmente con me stesso), suggerirei che non è decostruendo modelli di verità e significato, ma piuttosto rintracciando la loro valenza e il rapporto accidentale con la coscienza, la misura in cui le manifestazioni di verità sono giudicate e apprezzate (dopo essere state scomposte e riconosciute in quanto soggettive), lo scontrarsi tra etica ed estetica, che si può, in qualità di artista e filmmaker, esaminare più ampiamente un ambito così interessante. Ho iniziato solo da qualche anno e sto ancora studiando come arrivarci.
CL In The Casting combini in un unico racconto in cui tempo, spazio e memoria si sovrappongono, due vicende di un soldato americano che parla della sua esperienza traumatica. La fusione di diverse dimensioni temporali è tipica del tuo lavoro. Che tipo di sfida rappresenta per te lavorare su diversi livelli temporali?
OF Sono spesso attratto da soggetti che possono definirsi nostalgici. Mi riferisco a certi eventi del passato che riaffiorano continuamente nel presente come rappresentazioni, storie e film, produzioni culturali. Questi mi permettono di sovrapporre fasce temporali diverse e guardare come il passato alla luce del futuro interagisca col presente alla luce del passato. Sono interessanti anche per il fatto che un evento storico viene trasformato in una rappresentazione di una tale imponenza – prendi ad esempio l’affondamento del Titanic – che la riproduzione dell’evento diventa essa stessa evento storico, una sorta di sedimento che si fissa sull’originale, completo del suo stesso insieme di agenti, attori, testimoni oculari. (Non a caso questi eventi storici sono spesso disastri; dopo tutto la nostalgia è strettamente connessa al trauma). E ancora, ciò che trovo interessante è come tutto questo influisca in termini di coscienza e sulle nostre idee circa ciò che è reale e vero – storicamente ed esteticamente. In due lavori, Godville e Spielberg’s List, mi sono rivolto essenzialmente ad individui con esperienza diretta di questi eventi-rappresentazione. Godville guardava alle guide in costume nella Colonial Williamsburg, un museo di storia vivente negli Stati Uniti, in cui l’età prerivoluzionaria viene ricostruita in uno spettacolo di massa includente la schiavitù. In modo simile, Spielberg’s List presentava le comparse che nel 1993 avevano partecipato alla produzione del film di Steven Spielberg, Schindler’s List, ambientato durante la seconda guerra mondiale. In entrambi questi lavori, ho sfruttato la capacità dei miei soggetti di entrare e uscire da un personaggio e dal momento storico. Inoltre, i ricordi di queste persone sono montati in modo tale che il loro contesto storico risulta spesso sfocato e annullato, mettendo in primo piano invece la inequivocabile natura diretta delle loro descrizioni, la loro autenticità affettiva. Ciò che ancora una volta questo determina è il voluto indebolimento dell’importanza dei soggetti in quanto “testimoni” – le loro testimonianze di verità, per così dire – attraverso lo spostamento dell’attenzione sull’affetto e l’effetto delle loro affermazioni: come dicono ciò che dicono e quello che noi comprendiamo in quanto audience. Le testimonianze delle comparse di Spielberg convincono non tanto perché gli attori sono bravi, ma piuttosto in quanto hanno realmente vissuto ciò di cui parlano, direttamente, anche se come parte di un re-enactment. Per citare Svetlana Boym: “Nostalgia è ribellione contro la concezione moderna del tempo, il tempo della storia e del progresso. Desiderio nostalgico di obliterare la storia trasformandola in mitologia privata o collettiva, di rivisitare il tempo e lo spazio, rifiutando di arrendersi all’ineluttabilità del tempo, flagello della condizione umana”.
CL Un altro aspetto che rende affascinante il tuo lavoro è la tecnica. Spesso operi attraverso i tableaux vivants – né film né fermo immagine – creando pause e ripetizioni durante il montaggio. Preferisci questi espedienti poiché corrispondono agli schemi in cui memoria e storia sono ricostruite?
OF Ho introdotto per la prima volta i tableaux vivants girando The Casting nel 2007. C’erano più di due ragioni a motivare questa scelta. La prima dipendeva dal fatto che temevo che una ripresa naturalistica delle drammatiche storie dei soldati si sarebbe presto trasformata in melodramma. Il mettere in scena un tableau risolve questo tipo di problema rappresentandolo alla lettera, rendendo il pathos parte di una performance fisica in cui lo stare immobili piuttosto che apparire reali costituisce il criterio fondamentale con cui si giudica la performance. (Per inciso, non ho nulla contro il melodramma in sé; come per qualsiasi tecnica ci sono buoni e cattivi utilizzi). La seconda ragione era dettata dalla mia inesperienza come direttore. The Casting era il mio primo lavoro in 35mm. Esiste una gran numero di interpretazioni drammatiche di storie di soldati in questo formato e non mi interessava essere giudicato secondo quegli standard, né potevo sfidarli, quand’anche avessi voluto, sul loro terreno col budget che mi ritrovavo e la mancanza di esperienza di direzione. Rendere gli attori immobili significava che non sarebbe stato un film hollywoodiano. Trasformavo ogni ripresa in un gioco, e di conseguenza diventava una tecnica di rilassamento – per me e per chiunque fosse coinvolto. La gente si divertiva veramente e smetteva di cercare di darmi performance da oscar, il che tornava meglio per il lavoro. E in ultimo, dal momento che ogni scena di The Casting era realmente basata su un amalgama di immagini scaricate da Google, usare i tableaux sarebbe stato il modo di riconoscere le radici fotografiche dell’opera e avrei potuto almeno sostenere di aver fatto un film sulla fotografia se qualcos’altro fosse andato storto.
CL In Looking Pretty for God, addetti alle pompe funebri discutono su come preparare i defunti per la loro ultima apparizione. Tu non mostri né impresari né corpi; dei ragazzini sembrano dare una descrizione dell’opera in obitorio. Cosa ti ha ispirato per questo film altamente metaforico?
OF In realtà, mia figlia. È nata poco tempo prima che cominciassi a lavorare a questo progetto. Credo che ogni persona che ha il suo primo figlio è posto di fronte a un meraviglioso e allo stesso tempo terribile enigma, e cioè: cosa succede adesso? Come lavorerò? E come organizzerò la mia vita? Inevitabilmente, questo enigma porta con sé un corollario malinconico: ti rende più consapevole della tua stessa morte (tu sei il prossimo… dopo tutto) così come di quella di tuo figlio. (Morire durante il sonno, cadere dalle scale, prendere una malattia, soffocare col cibo; queste le paure quotidiane, almeno all’inizio.) Se ciò sembra un po’ ossessivo dico che, come artista, essere padre ti spinge anche a fare opere per e su i bambini. E ciò va bene, purché non diventi un’abitudine. Onestamente, sono stato vittima di questa sindrome del primo figlio e ho cercato di optare per il minore dei mali facendo Looking Pretty for God. Gli attori bambini che appaiono nell’opera potrebbero sembrare “posseduti” dalle voci esterne all’immagine degli addetti alle pompe funebri, ma in realtà l’intero progetto è stato per me una sorta di esorcismo. Ho superato le mie paure sui bambini portandoli in obitorio e compreso meglio la morte come processo fisico.