Arte e Critica Anno 16 Numero 63 giugno-agosto 2010
Creare mondi – futuri – utopie! I termini con cui vengono descritte le strutture sospese di Tomas Saraceno sono sempre un po’ ampollosi, avvicinandosi pericolosamente alla tracotanza. Saraceno stesso rigetta rigorosamente il termine “utopia”. Il suo rifiuto si spiega con un riferimento all’etimologia greca della parola che la definisce come “non-luogo”. Per Saraceno, le opere hanno scopi reali, non sono “ideali” nel senso di “non realizzabili”. Le vede piuttosto come studi, stimoli e spunti per riflessioni che dovrebbero portare sia l’autore che il pubblico in territori teorici e fisici non ancora frequentati, ma accessibili.
In un artista con formazione da architetto, infatti, l’obiettivo di poter utilizzare le strutture spaziali come ambienti lavorativi ed abitativi non sorprende. Nelle opere di Saraceno il confine fra arte e architettura è segnato dalla sottilità dei materiali comunque estremamente resistenti e da una poesia costruttiva che rende il pensiero di natura profana quasi un sacrilegio, senza trasformare lo spazio, però, in un luogo sacro. Le strutture trasparenti e fluttuanti degli “air port cities” mostrano l’ambizione di adeguare la vita umana, i sistemi sociali, ecologici e – perché no? – anche fisici a questa presunta possibilità di vivere sospesi, senza badare né a legami verticali né orizzontali, cioè abolendo sia la gravitazione che i confini geopolitici. Anche, o meglio: se uno non lo intende “utopico” il programma di Saraceno rappresenta una sfida da affrontare con strumenti educativi che vanno ben oltre la mera contemplazione.
Il museo aerosolar lanciato da Tomas Saraceno insieme all’Isola Art Center di Milano rappresenta un modello particolare nella storia dei tentativi volti a suscitare una trasformazione sociale tramite l’arte. Il principio è semplice (anche se impegnativo e laborioso nella realizzazione): si pubblica un appello per raccogliere le borse di plastica della spesa quotidiana, destinate solitamente a finire dopo pochi giorni d’uso nei bidoni di pattume, e si organizza un punto di raccolta per questo materiale di riciclaggio artistico. Si insegna ai volontari che seguono l’invito ad aprire le borse con due tagli per trasformarle in pezzi rettangolari di plastica, ad attaccarli l’uno all’altro con un nastro adesivo, e come crearne un grande “pallone”.
I colori, i disegni, le dimensioni e la forma del museo aerosolar dipendono dalla fantasia, abilità e conoscenza delle persone che lo realizzano. Alla fine, basta un ventilatore che riempie l’interno del pallone con l’aria dell’ambiente attorno e un po’ di fortuna per quanto riguarda il sole e il vento. Grazie alla pelle di plastica l’interno del pallone si riscalda più velocemente rispetto all’aria all’esterno e, come abbiamo imparato nelle lezioni di fisica, l’aria calda salendo in alto fa salire con sé anche il pallone delle borse di plastica.
Dopo il suo esordio in occasione della Sharjah Biennale nel 2007 e le realizzazioni seguite a Milano, Medellin (Colombia), Lione (Francia), Rapperswill (Svizzera), Tirana (Albania), Ein Hawd (Israele), Minneapolis (USA) e a Prato nell’autunno 2009, il museo aerosolar oramai ha raggiunto le dimensioni di un grattacielo ed eccede di molto le misure degli zeppelin di una volta.
La produzione collettiva del museo ruota attorno a un programma di ecosostenibilità: per volare non bisogna consumare risorse limitate come i derivati dal petrolio. Anzi, invece di consumare una materia scarsissima, e quindi preziosa, per il trasporto si potrebbero sfruttare sia l’energia solare con il suo potere elementare di riscaldare l’aria, che i materiali realizzati con grande spreco energetico: produrre e riciclare una borsa di plastica prende molto più tempo di quanto questo emblema del consumismo di massa venga solitamente utilizzato.
Saraceno e il gruppo dell’Isola Art Center condividono in modo più aperto possibile la tecnica di costruzione e i contenuti di ecosostenibilità del museo aerosolar: le istruzioni al riguardo si trovano alla portata di tutti sul sito www.museoaerosolar.wordpress.com. Un blog invita ad uno scambio d’idee per migliorare il funzionamento delle cose e creare altri musei aerosolar dovunque il lettore voglia.
La relazione fra l’opera d’arte e il pubblico, da sempre spunto sia per riflessioni teoriche che per produzioni artistiche, rimane un argomento “caldo” fra artisti, critici e curatori, come recentemente ha ribadito Paul Chan nel suo contributo per l’ “e-flux journal” numero 16 con il titolo The Unthinkable Community. Chan riflette sul cambiamento nella percezione di appartenenza ad una comunità dovuto allo sviluppo dei social network che a suo avviso trasforma la comunicazione in una specie di spudorata autopromozione, dove il destinatario non è più considerato un interlocutore ma semplicemente un “ricevitore” di informazioni. L’esempio delle collaborazioni nate in seguito alla messa in scena di Godot a New Orleans nel 2007 per Chan è un incoraggiamento a creare di nuovo comunità di collaborazioni reali che abbraccino la diversità dei singoli membri, rendendo proprio questa varietà punto forte del gruppo.
Con le sue riflessioni sull’omogeneità immaginata di una comunità virtuale versus la eterogeneità reale delle comunità “vissute” Chan riprende – senza però fare esplicitamente riferimento a questo dibattito teorico in corso da anni – una discussione lanciata da Claire Bishop in Antagonism and Relational Aesthetics su “October” n.110 del 2004, dove la critica anglosassone metteva in discussione i termini “pubblico” e soprattutto “comunità”. La Bishop constatava che gli artisti citati da Nicolas Bourriaud come protagonisti di quanto egli definisce estetica relazionale negli anni novanta presentavano in genere delle “piattaforme” utilizzabili. Le installazioni di Liam Gillick, Rirkrit Tiravanija, Pierre Huyghe ed altri mettevano a disposizione una gamma di possibilità per gli spettatori di relazionarsi l’uno con l’altro. Il mero fatto di porre in relazione, senza badare a qualsiasi tipo di contenuto che potrebbe essere oggetto di un confronto, per Bourriaud ed i suoi proseliti sembrava bastare per ritenere questi interventi politicamente impegnati. L’estetica relazionale – così la Bishop restituisce maliziosamente un racconto del critico newyorkese Jerry Saltz sulle sue esperienze con la cucina/ristorante installata da Rirkrit Tiravanija nella 303 Gallery – creava delle comunità omogenee, il cui denominatore comune in grado di generare un senso di condivisione poteva anche essere solo il piacere di scambiare qualche pettegolezzo. “Nokia Art” (facendo ovviamente riferimento allo slogan pubblicitario del gruppo finlandese “connecting people” e puntando in questo modo sul fatto che l’estetica relazionale rimanga senza contenuti) è sicuramente la descrizione più ironica, ma non meno convincente, riservata da Claire Bishop al movimento artistico che secondo il suo collega francese aveva distinto l’arte più d’avanguardia degli anni Novanta. Il modello opposto alla “relazione per la relazione”, secondo la Bishop, è rappresentato dagli artisti Santiago Sierra e Thomas Hirschhorn, che invece di provare a creare delle comunità “feel good” sottolineano le differenze fra l’arte e la vita quotidiana, fra opera d’arte e visitatore, senza cercare di dare vita a delle “comunità”, provocando invece lo spettatore a definire se stesso sempre diversamente a seconda delle nuove situazioni artistiche che gli si presentano. La distinzione fra arte e vita di tutti i giorni avviene chiaramente tramite un confronto politico-sociale che esplicitamente non coinvolge lo spettatore, ma gli fa notare il suo differire o il suo appartenere ad un contesto altro rispetto a quanto Sierra o Hirschhorn gli pongono davanti.
Il museo aerosolar di Tomas Saraceno e l’Isola Art Center presentano, distinguendosi dalle posizioni sopra citate, una “terza strada”: Saraceno affida la produzione dell’opera alle mani di un gruppo di persone che tramite questo lavoro diventano una nuova comunità di produttori, non di spettatori. La diversità dei singoli componenti è voluta e contribuisce al successo dell’opera, per quanto riguarda il funzionamento e l’estetica dell’oggetto finale. L’impostazione no profit del progetto, sia per le sue dimensioni sia per il fatto che richiede grandi gruppi di produzione il più eterogenei possibile anche in grado di auto-organizzarsi grazie alla diffusione del sapere necessario, rende difficile un ritorno economico ed è solo una delle caratteristiche che salvano il museo aerosolar dal rischio di sostituire i limiti dell’estetica relazionale con un processo di produzione altrettanto ripiegato su se stesso. Lo scopo del museo non è né economico né meramente estetico, bensì quello di sperimentare delle realtà alternative che un giorno dovrebbero lasciarsi trasformare in modelli di vita. Tale realtà rappresenta una continua ricerca sull’ecosostenibilità che, grazie sicuramente anche al fascino dell’oggetto scaturito dal suo presentarsi sotto forma di enorme struttura volante, viene tenuta in moto da comunità “istantanee”. Queste ultime si assumono il ruolo dell’autore, che però non ha più il consueto rilievo andando a coincidere con il pubblico, unito nella riflessione su come frenare il danneggiamento continuo del pianeta e su come creare dei futuri vivibili.
* Citazione dal blog del museo aerosolar in occasione della sua realizzazione al Walker Art Center, Minneapolis, 2008 http://museoaerosolar.wordpress.com/places/