Arte e Critica Anno 16 Numero 65 dicembre 2010 - febbraio 2011
Intervista all'artista
La recente mostra all’Astuni Public Studio di Bologna, A chi ti stai rivolgendo/Who is your audience, curata da Lorenzo Bruni, ha visto tra gli altri la presenza di Vlatka Horvat. dalla natura dei lavori esposti e in vista della sua presenza a Bologna Art First è nata l’idea di approfondire il suo lavoro
LB: Le tue opere sono il frutto del voler mettere in evidenza e ri-organizzare lo spazio in cui vai ad intervenire con performance o con segni minimi. Ti interessa di più confrontarti con lo spazio fisico o far immaginare lo spazio? Punti a far riflettere gli spettatori su come usano e praticano lo spazio o su come lo vedono e lo osservano?
VH: Molti dei progetti che ho realizzato ultimamente indagano il potere che hanno i gesti e le singole azioni di riorganizzare lo spazio, ma anche di farlo immaginare. Questa riflessione generale la sto sviluppando sia con azioni e performance che eseguo in prima persona, sia modificando oggetti del quotidiano che vanno a trasformare la percezione di quello spazio. Inoltre, un aspetto che influisce su questo mio processo è il contesto in cui agisco, ovvero lo spazio pubblico o una stanza chiusa. Nel primo caso sono stata portata a realizzare nell’ultimo anno opere come This Here and That There (la performance di 8 ore con 50 sedie realizzata a Berlino, a Essen e a Los Angeles), To Bring Down a House (una collaborazione con l’artista Tim Etchells per l’Home Works Festival di Beirut, 2008), e Here to Stay (nell’Upstate di New York, 2007). Nel secondo caso, invece, ho indagato di più il concetto di stanza come luogo separato dal mondo e da cui il singolo può rivalutare a priori le modalità con cui pensa al reale e soprattutto re-immaginare l’uso ordinario degli oggetti del quotidiano contenuti in esso. Questo approccio mi ha portato a realizzare ultimamente progetti come Or Some Other Time (per The Kitchen a New York, 2009), For Example (2009) per la Biennale di Istanbul e To Go On (2010) per Greater New York al MoMA PS1 di NYC. La scultura Floor Chair – presentata alla mostra A chi ti stai rivolgendo presso l’Astuni Public Studio di Bologna – nasce sempre dalla stessa voglia di cui ti parlavo di indagare e confondere i confini netti che separano un oggetto dalla stanza che lo accoglie… per questo ho tagliato a metà una semplice sedia da scuola e l’ho posizionata orizzontalmente per terra, tale da apparire come se fosse parzialmente “scomparsa” sotto la superficie del pavimento. Se questa situazione solleva l’interrogativo di dove sia finita l’altra parte dell’oggetto, allo stesso tempo invita chi guarda a riflettere sullo spazio che sta oltre la visione, pone una questione circa la concretezza dello spazio. La cosa che cerco di fare in entrambi i casi, intervenendo in luoghi pubblici con un forte carattere sociale o in luoghi asettici come semplici stanze vuote, è quella di permeare lo spazio di immagini e gesti poetici per ridisegnarli e trasformarli, ma al contempo per evidenziare le loro caratteristiche “reali” e “concrete”, i loro utilizzi attuali, le loro storie e problematiche.
LB: Le tue opere quindi sono dei dispositivi per far vedere e percepire quel luogo in maniera diversa, ma anche per far accogliere la figura umana? Punti ad una fuga dal quotidiano?
VH: Le situazioni che creo con i miei interventi, sempre al limite tra il paradossale e il surreale, non puntano ad una pausa o ad una fuga dal quotidiano ma a dargli nuova concretezza. Ipotizzando un nuovo modo di osservare le cose permetto di far emergere le caratteristiche psicologiche e fisiche di quel luogo e un nuovo modo di immaginarlo. Però, queste condizioni, o momenti epifanici, per me sono solo il mezzo per evocare la presenza della figura umana e per stimolare una nuova relazione tra soggetto e contenitore e viceversa. Il contenitore con cui cerco di stabilire o stimolare un equilibrio con l’osservatore è quello fisico della scatola architettonica, ma anche quello invisibile delle regole sociali e quello del nostro stesso corpo. Il trittico fotografico Obstructed del 2007 – in cui si vedono braccia e gambe che sporgono da un pilastro al centro della stanza che copre il resto del corpo evocando un vuoto, uno squarcio spaziale, in cui il corpo è risucchiato ma che non può essere percorso –, la performance Unhinged – realizzata per il festival KunstenFestivaldesArts a Bruxelles nel 2010, in cui mi muovevo per otto ore aggirandomi per un antico palazzo tenendo una porta tra le mani, diventando il suo contenitore e la sua architettura – e la serie di collages Anatomies – in cui le braccia e le gambe sono ricomposte come se fossero riflesse da uno specchio dando vita a uno strano vocabolario o bestiario – indagano e forzano allo stesso tempo i limiti spaziali e della visione per stabilire un nuovo incontro/dialogo tra contesto e soggetto.
LB: La performance a cui accennavi, This Here and That There, è un’azione che hai realizzato in differenti città. Per otto ore, tu in prima persona sposti un gruppo di sedie organizzandole in disegni geometrici differenti. È lo stesso lavoro in luoghi diversi o sempre opere differenti?
VH: Sì. L’azione è simile, sistemare un set di sedie per ipotetici dialoghi tra un ipotetico pubblico, ma il risultato è diverso, visto che punta ad attivare simboli e memorie cittadine che cambiano di città in città. A Berlino, la performance si è svolta in un specchio d’acqua di fronte alla Haus der Kulturen der Welt, un’istituzione costruita negli anni ’50 con un obiettivo idealistico: essere un luogo in cui potevano incontrarsi culture diverse. In questo contesto, l’opera tenta un dialogo, ma registra il fallimento di questo programma istituzionale. Per otto ore ho disposto e ridisposto le sedie dando ad esse diverse configurazioni spaziali e sociali. L’idea è di evidenziare l’istante in cui preparo lo spazio per una serie di potenziali incontri, dibattiti, nonostante gli eventi reali non abbiano mai luogo, ma solo la preparazione. La stessa azione è stata realizzata una seconda volta al PACT Zollverein di Essen, una ex miniera di carbone, stabilimento dell’industria bellica durante la seconda guerra mondiale. Qui il contesto storico rendeva più evidenti i concetti di produzione, meccanizzazione e lavoro. A Los Angeles, dove la performance ha avuto luogo in un fiume, si veniva a creare una forte tensione tra l’energia e il flusso del fiume da una parte, e la struttura e l’ordine messi in atto dalla disposizione delle sedie dall’altra. I corsi d’acqua navigabili e lo spazio pubblico costituiscono questioni molto dibattute a Los Angeles, visto che la città si è sviluppata nel deserto, ed essendo molto grande le persone passano il loro tempo ad attraversarla in auto riducendo al minimo l’esigenza di spazio pubblico a favore degli spazi per le attività commerciali. Ambientare la performance nel fiume, sotto un cavalcavia molto trafficato, voleva dire in qualche modo riscattare il fiume, renderlo spazio libero, luogo pubblico, a dispetto dei tanti piani e progetti volti al suo sfruttamento e sviluppo… aggiungendo un nuovo strato di complessità all’opera.
LB: Che cosa è per te lo spazio urbano? Cosa intendi per spazio pubblico? Le tue azioni possiamo definirle in un certo senso atti politici o sono azioni che riflettono sull’atto artistico in sé?
VH: Quando rifletto sul concetto di spazio urbano, mi viene in mente lo scritto di Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, testo su cui ritorno spesso. Per de Certeau, i modi in cui gli individui usano le cose sono direttamente legati alle strategie di resistenza e di sopravvivenza all’interno delle diverse strutture dell’ordine. Dal mio punto di vista, la performance con le sedie mette bene in atto questa idea di spazio collettivo e il mondo delle relazioni come qualcosa che può essere modificato e ri-configurato. Certamente, l’immagine di una singola persona intenta a “riorganizzare il mondo” evidenzia la lotta di un individuo all’interno di un processo più ampio… Nell’opera convivono il senso di possibilità e di fallimento, ed entrambi producono una tensione irrisolta. Penso spesso a Beckett in relazione al mio lavoro. Le sue parole “Non posso continuare, non posso, continuerò” e “Sbaglia di nuovo. Sbaglia meglio” risuonano forti in me, in quanto parlano della persistenza e perseveranza umane, piuttosto che andare a scontrarsi continuamente contro i limiti concreti.
Domande quali “come sta il corpo qui”, “cosa può accadere qui” o “cosa è possibile qui” non sono solo questioni pratiche riguardanti lo spazio fisico; sono anche domande esistenziali, questioni di ordine sociale e politico. Ogni attività che non rientra nelle codificazioni delle regole della società costituisce una minaccia allo status quo, ribaltando le aspettative sull’idea che si ha di come noi viviamo e ci comportiamo. Per questo definirei il mio lavoro un atto politico, o meglio etico… un processo che riflette sia su cosa è oggi un’opera d’arte sia sulla società che dovrebbe comprenderla e discuterla. Proprio per questo motivo le mie opere hanno spesso a che fare con il concetto di “scorrettezza”, di “resistenza”, e di “disagio”, e su una continua relazione, scambio o equivoco tra dimensione fisica e mentale di come il singolo si rapporta al mondo. La mia installazione del 2005 con la scritta al neon This is Not a Good Place effettua una dichiarazione sprezzante, senza offrire alcuna spiegazione o qualifica neanche sull’idoneità di chi effettua l’affermazione. “Chi parla?”. Questo lavoro, che solitamente è installato in un luogo “cattivo” dello spazio espositivo (in un seminterrato, o sotto le scale, per esempio), può essere letto come riferito a quel contesto specifico, fisico, ma anche in un senso più ampio “questo luogo” potrebbe significare questa città, questo paese. Nessuna delle specifiche è rivelata o trattata, aprendo il riferimento ad un concetto più astratto del luogo – non un luogo specifico, ma qualsiasi luogo. Questo è quello che accade oggi con la dispersione permessa dalla comunicazione di Internet, che ci illude di poter essere contemporaneamente in qualsiasi luogo ma che ci ricorda solo di non essere in grado di essere ovunque correttamente in quanto presenza fisica, poiché i luoghi non sono mai neutri.
LB: Pensando al tuo discorso su corpo sociale e corpo del soggetto, quale è per te il ruolo dell’artista? Cosa ti aspetti che succederà e che aggiungerà al tuo lavoro l’azione a Bologna all’interno del progetto Bologna Art First curato da Julia Draganovic in collaborazione con Arte Fiera?
VH: Con il lavoro della performance con le sedie non si arriva mai allo stesso significato. L’opera scaturisce sempre dai significati differenti rispetto al luogo con cui si mette in relazione. Per la prima volta a Bologna presenterò contemporaneamente due aspetti differenti di questo lavoro. Il video della performance (la versione di Berlino) andrà a rivitalizzare un luogo di socializzazione importante della città, giocando più su aspetti simbolici e utopici, mentre la performance creerà un aspetto di stupore e una nuova possibilità di vivere e riconquistare gli spazi collettivi. Mi sembra una bella sfida dal momento che le piazze virtuali (proposte dai social network) sembrano più appetibili delle piazze fisiche che richiedono esperienze dirette, e questo si è ripercosso sul concetto di identità personale, collettiva e sull’idea di fare politica. L’arte deve proporre domande e possibili risposte nello stesso momento, introdurre meraviglia, contrastare lo status quo, immaginare le situazioni in modo diverso.