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Urban Anno 11 Numero 100 ottobre 2011



Silk Road

Francesca Bonazzoli

Dieci anni fa nasceva come Urban la prima galleria di fotografia iraniana. Un grande traguardo ma anche uno scorcio inedito su un paese “imprevedibile”





SOMMARIO Urban N.100

9 | editoriale

11 | icon

13 | interurbana
al telefono con Alice Socal

15 | portfolio
Mani in alto

21 | Cult
di Michele Milton

24 | musica
di Paolo Madeddu

27 | 100 desideri
a cura della redazione

43 | un desiderio esaudito
di Mirta Oregna
immagini Le Fooding

46 | silk road
di Francesca Bonazzoli

50 | body
di Ivan Bontchev
foto Giorgio Codazzi

52 | details
di Ivan Bontchev
foto Kostadin Krastev - Koko

55 | libri
di Marta Topis

58 | l’insostenibile leggerezza di asif khan
di Maria Cristina Didero
foto Mattia Zoppellaro/Contrasto

62 | persistenze
foto Alvaro Beamud Cortés
styling Ivan Bontchev

76 | iris van herpen
di Federico Poletti

80 | around central park
foto Eric Guillemain
styling Heidi Bivens

88 | design
di Olivia Porta

93 | sogni, desideri, visioni
102 | nightlife
di Lorenzo Tiezzi

103 | Fuori

110 | ultima fermata
di Franco Bolelli
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Babak Kazemi

Shadi Ghadirian

Babak Kazemi

Se non si brinda in compagnia che festa è? Per questo Urban è andato a trovare fino in Oriente, in Iran, una galleria fotografica di Tehran che celebra, anche lei, il decennale. Nata nel dicembre 2001, la Silk Road Gallery vuole essere, come dice il nome, un luogo di transito interculturale fra l’Oriente e il bacino del Mediterraneo. L’idea è portare la giovane fotografia iraniana anche in grandi manifestazioni come per esempio Paris Photo, il prossimo novembre.
Se infatti il cinema ci ha ormai abituati ad apprezzare lo stile delicato, poetico e minimalista di registi come Kiarostami, Makhmalbaf o Ghobadi, della fotografia sappiamo ancora poco. Non solo noi occidentali, ma gli stessi iraniani perché nel paese non ci sono musei o istituzioni pubbliche dedicate alla fotografia. Anche il collezionismo è pressoché assente, ma negli ultimi anni è cresciuto un pubblico giovanile tanto che, se dieci anni fa la Silk Road era l’unica galleria specializzata, ora ce ne sono altre tre.
Eppure la pratica della fotografia è cominciata in Iran fin dagli anni Sessanta quando però la maggior parte dei fotografi non riusciva ancora a esercitare a tempo pieno e doveva dedicarsi a un lavoro stabile per potersi mantenere. In seguito, durante la rivoluzione del 1979 e la guerra con l’Iraq del 1980-88, molti di loro hanno trovato un’opportunità di lavoro nella stampa internazionale. Solo alla fine degli anni Novanta, con l’elezione di Khatami e le riforme sociali, una nuova generazione di giovani ha cominciato a dedicarsi alla fotografia artistica facendo da apripista all’attuale drappello di professionisti che hanno sviluppato una piena familiarità con la scena internazionale.

La galleria diretta da Anahita Ghabaian Etehadieh, nel 2009 nominata curatrice della biennale Photoquai organizzata dal museo parigino del Quai Branly, rappresenta tutte queste generazioni e tuttavia è difficile parlare di una scuola iraniana di fotografia, come spiega lei stessa.
La nostra fotografia, così come l’arte contemporanea, è in parte influenzata dai linguaggi internazionali, ma anche dalla situazione politica e sociale dell’Iran. Questo rende difficile definire le caratteristiche specifiche di una nostra scuola nazionale. Si aggiunga l’antica propensione culturale iraniana per la diversità, nelle opinioni, negli ideali, nei gusti, che marca in modo evidente il lavoro dei nostri fotografi e le loro preferenze”.
Anche le donne sono ben rappresentate e una di loro, Gohar Dashti, per esempio, è stata tra i nomi più apprezzati nell’edizione del 2009 di Paris Photo. Shirin Neshat, la prima a guadagnare una fama internazionale, forse anche perché da ormai molti anni vive in America, non sembra aver influenzato il lavoro di coloro che sono rimasti in patria.
I soggetti più frequentati dagli artisti sono i temi sociali e politici, la vita quotidiana, sempre con un tono critico, a volte esplicito, altre più nascosto.

I nostri autori devono autocensurarsi per poter sopravvivere e così bandiscono dai loro lavori soggetti legalmente proibiti come i nudi o la promiscuità di corpi maschili e femminili. Quello che rimane sono soprattutto autoritratti, riflessi di eventi quotidiani e tragedie della nostra storia contemporanea, come la guerra con l’Iraq”.
I soggetti sociali e politici sono i preferiti dai collezionisti occidentali, sempre curiosi di conoscere il punto di vista iraniano rispetto alla censura, alla questione femminile e ai temi sociali. Al contrario, da parte loro, gli iraniani amano esprimersi in modo più sottile, come nella poesia, e alle immagini provocatorie ed esplicite preferiscono quelle più suggerite. Esattamente come fa il cinema, che ci incanta proprio per quel suo modo, da noi perduto, di bisbigliare piccole storie; di evocare emozioni private piuttosto che prenderci per le budella e somministrarci una dose commercialmente calcolata di shock.

“Ho pensato a lungo se potesse esserci una maniera definibile come scuola e il nostro libro The 10 years of the Gallery cerca appunto di dare una risposta. Ma forse è ancora troppo presto per vedere un movimento artistico omogeneo. Ci serve ancora distanza. D’altra parte, all’inizio, le foto volevano soprattutto attrarre l’attenzione del pubblico occidentale, forse per bilanciare l’orribile informazione sull’Iran che restituiva un ritratto molto opaco del paese e per affermare che gli iraniani sono un popolo moderno nonostante i cliché riportati dai media. Poi, con il passare degli anni e in seguito ai recenti eventi, questo modo distorto di guardare al Medio Oriente è cambiato e anche in Occidente ora c’è più attenzione verso l’essenza artistica del lavoro fotografico”.

Quello che balza subito all’occhio è il gusto molto estetizzante delle immagini, da messa in scena curata nei colori, nei dettagli decorativi, nelle pose, più che da reportage. Anche quando l’intento è di catturare la cronaca, il taglio dell’immagine privilegia la bellezza, l’armonia delle cromie, la spettacolarità, l’apparenza artigianale. È un linguaggio “classico”, rispettoso di certe regole formali, da noi abbandonato con i furori avanguardisti. Probabilmente è proprio questa perduta naiveté ad affascinarci.
E tuttavia rimaniamo sempre molto curiosi di sapere di più sui diritti politici e civili; di sapere, per esempio, se anche gli iraniani sono a conoscenza che l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh è stata condannata, proprio il mese scorso, a sei anni di carcere per aver difeso il Nobel Shirin Ebadi e altre donne attiviste.

“Sia internet che i canali satellitari consentono agli iraniani di essere virtualmente informati su tutto. Gran parte della popolazione urbana, per esempio, è al corrente dello sciopero della fame della Sotoudeh. È una donna coraggiosa fra gli innumerevoli altri uomini e donne che, come lei, hanno donato la propria libertà per difendere un ideale”.
In effetti, ciò che sorprende di più noi occidentali che a fatica abbiamo messo insieme qualche migliaio di “indignati” nelle piazze di Madrid e Atene è la tenacia nello sperare in un futuro migliore.

“La cosa più difficile da sopportare nella vita quotidiana in Iran è l’ingiustizia”, spiega Anahita. “Ma la cosa più bella del mio paese è l’imprevedibilità. Per questo il mio augurio di compleanno è la libertà”.