Urban Anno 11 Numero 102 dicembre 2011-gennaio 2012
La bellezza terribile
Ha “solo” 31 anni, che per i nostri parametri italiani è quasi come dire post adolescenza, eppure Richard Mosse ha già visto e vissuto il lato peggiore dell’umanità.
Sarà che è nato in Irlanda, ossia in una terra dura, dove le campagne sono tanto piovose quanto solitarie e le città hanno incrostata nell’anima la povertà delle periferie; sarà che uno certi démoni se li porta dentro e non può far altro che andare a cercare il medesimo heart of darkness fuori di sé, ma Richard, con la sua pelle bianca e gli occhi azzurri, ha già attraversato il cuore di tenebra del Congo, dove agisce un esercito di criminali che si sta macchiando delle più abominevoli violenze e ha fatto oltre cinque milioni di vittime. È già stato in Iraq, a Ramallah, e lungo la strada che dal Mexico porta i clandestini in Texas, e da questi viaggi nell’orrore Mosse è riuscito a emergere con una serie di lavori fotografici che hanno qualcosa del Sublime, così come l’ha teorizzato Edmund Burke nel Settecento e l’ha magistralmente reinterpretato Werner Herzog in certi film come Fitzcarraldo o Aguirre furore di Dio: l’abisso che affascina, la contemplazione di ciò che può destare dolore e pericolo e la cui potenza potrebbe distruggere chi lo osserva oppure salvarlo aprendogli un’altra dimensione mentale.
“Il poeta irlandese William Butler Yeats la chiamava la ‘bellezza terribile’, ci dice Richard. “Per quanto mi riguarda vedo la bellezza come uno straordinario e potente modo di capire il mondo, un po’ come la musica, che ti può colpire direttamente al cuore e far deflagrare anche la persona più cinica”.
Un curriculum di studi e master di fotografia fra Londra e Yale finché un giorno di dieci anni fa, durante un viaggio in Croazia, Richard decide di fare una deviazione in Bosnia.
“Le campagne devastate e i nomi evocativi dei segnali stradali come Mostar, Sarajevo, Banja Luka, Tuzla si incisero nei miei sogni e l’anno dopo ritornai con una grande macchina fotografica. È stato l’inizio di un lungo viaggio intorno al mondo”, racconta.
Sono nati così reportage straordinari dove ogni viaggio sembra avere un suo colore. Magenta per Infra realizzato in Congo con una speciale pellicola infrarossa della Kodak chiamata Aerochrome che registra lo spettro invisibile di luce infrarossa con l’effetto di restituire il verde attraverso accese tonalità di lavanda, bordò e rosa intenso. Bianco per The fall, un reportage sulle carcasse degli aerei precipitati in giro per il mondo, ma specialmente in lande desolate coperte di neve; grigio per Airside, scatti di incendi in basi aeree; azzurro e sabbia per Nomads scattato nelle basi americane in Iraq. “Non ho mai fatto caso a quest’unità di tono, non è qualcosa che cerco, ma evidentemente viene fuori dallo sforzo di articolare il tema che alla fine si fonde in una forma coerente, inclusa la gamma cromatica”.
In Congo ha attraversato le linee del fronte di una guerra fra le più feroci mai combattute e finanziata dai nostri cellulari e computer. Nell’ex colonia belga si estraggono infatti i minerali che servono per i componenti elettronici e i cui profitti finiscono nelle tasche dei signori della guerra.
“Non mi sono mai occupato di una guerra peggiore di quella del Congo, e mi ossessiona. In Congo, ho visto donne mutilate, bambini forzati a mangiare la carne dei loro genitori, ragazze vittime di stupri e distrutte nel loro io (una ogni minuto, è stato calcolato, n.d.r.)”, ha scritto il premio Pulitzer Nicholas Kristof sul New York Times.
Richard ha vissuto con questi spietati militari per molti giorni, dormendo in una tenda e mangiando il loro stesso cibo. Ha marciato nel fango anche fino a dieci ore al giorno. Eppure è riuscito a scattare immagini di grande e conturbante fascino.
“Quello che mi manca di più quando sono fuori è l’acqua corrente e l’elettricità, specialmente di notte, quando tutto è avvolto dall’oscurità assoluta. Prima di addormentarmi penso all’alba, che è sempre favolosamente bella”.
La paura, ammette, fa parte dell’esperienza ed “è molto salutare. La mia vita negli ultimi anni è stata qualcosa di irreale. Il salto di realtà fra una zona di conflitto nella giungla e un party a una fiera d’arte di Miami è totale e incommensurabile. È praticamente impossibile riconciliare quei due mondi. Meglio non provarci nemmeno”.
Nei suoi prossimi piani c’è il ritorno in Congo, a gennaio, con una cine-camera Arriflex e alcune rarissime bobine di pellicola super 16 mm a infrarossi, ormai quasi esaurite, per fare un film sui ribelli.
“Quando vivo a New York, quello che mi manca non è tanto l’adrenalina quanto piuttosto quello speciale tipo di esperienza autentica che faccio quando lavoro. In ogni caso le emozioni più belle le vivo al ritorno, quando una massa di memorie scorre come il sangue attraverso il mio corpo e finalmente comincio a capire quello che ho fatto. Generalmente mi succede nel volo verso casa. Sono sempre viaggi lunghi in cui ascolto Steve Reich, Brian Eno o Glenn Gould ed entro in uno stato meditativo ipnotico o in una specie di beatitudine epifanica. Chiunque viaggia sa cosa intendo. Quanto al significato della vita, non ho certezze. Mi sembra più facile guardare alla vita come a un gioco”. •
Richard Mosse, Infra, è in mostra alla Jack Shainman Gallery di New York fino al 23 dicembre.