Inside Art Anno 4 Numero 29 gennaio 2007
Incontro con Adrian Tranquilli
Alla Kunsthalle di Vienna, nel 2005, c’erano lui, Vezzòli e Cattelan. Come dire, la triade dell’arte contemporanea italiana. Una bella soddisfazione per l’artista nato a Melbourne quarant’anni fa, a Roma praticamente da sempre. A cavaliere di due mondi, Adrian Tranquilli ha fatto del suo “melting pot” qualcosa con cui azzerare i valori dell’esistente, ridiscuterli a partire dal mito dell’eroe, del maschio salvifico. «Il fatto di aver avuto una madre inglese mi ha portato a dover soppesare due culture molto diverse fra loro, anche se entrambe occidentali. Poi ho anche sposato una serbocroata. Battute a parte, sapere che un modello culturale è relativo, che tutto è indotto, mi ha spinto alla ricerca sui miti contemporanei. Tutto il mio lavoro degli ultimi anni si basa sul supereroe e dintorni, relativo al concetto del maschio salvatore all’interno del modello culturale occidentale. La trasposizione di uno dei fondamenti della nostra cultura».
Com’è nata l’idea dei supereroi? «Di norma faccio dei cicli nel mio lavoro. Mi reputo una sorta di regista, voglio poter fare un film di fantascienza come un documentario storico. Il mio primo ciclo, “Sei senza nome”, era relativo ai simboli femminili visti dal punto di vista maschile. Il terzo ciclo riguarda appunto i supereroi, la mitologia dove si parte dall’idea che il modello culturale sia al di sopra della storia. Un passaggio inevitabile è quello del supereroe, del supermaschio. Ho una passione per il fumetto, è chiaro, ma mi è sembrato naturale. Ovviamente partendo dal principio che tutto è relativo, indotto, l’idea del maschio salvatore come principio fondamentale o positivo è un errore. L’idea che questo modello culturale, come quasi tutti gli altri, si basi sull’idea di maschio che ci salva, detentore del bene, del dio maschio che addirittura sacrifica il figlio per salvarci, ecco, questo mattone culturale deve essere scardinato. Ma la considero una battaglia persa. Un sistema culturale non si cambia così, però essere consapevoli di questo è già un passo avanti».
Parliamo del tuo lavoro: tre mostre in corso, compresa la personale a Roma. «Sono molto soddisfatto del mio lavoro. Ma anche insoddisfatto, aspetto sempre la mostra successiva, mi aspetto dietro l’angolo. Questa allo studio Miscetti è molto importante per me, perché dopo cinque anni torno a fare una personale a Roma, nella mia galleria di riferimento. Ho voluto affrontare un tema nuovo, avendo lavorato sempre sui superbuoni: quello del supercattivo per eccellenza, il Jolly. Quindi, ancora una volta, sottolineare il confine tra bene e male. Il supereoe che detiene il bene, la giustizia, indubbiamente è un modello ambiguo, come non lo è il cattivo. Quindi chi è il buono? Dov’è il confine, il limite? Dove sta la realtà e la derealtà? Forse il confine tra bene e male non c’è, sono tutt’uno».
E tra realtà e fantasia? «Il punto è: cos’è reale e cosa dereale? La mitologia, la religione, hanno una loro derealtà, una dimensione spazio temporale altra, un tempo a parte. Anche il fumetto ha una sua derealtà ben precisa. Il confine è labile e per quanto mi riguarda inesistente. Non parlerei di fantasia. Anche la religione è un prodotto inventato, ma è ben diversa della fantasia: è una derealtà, una realtà altra, appunto. D’altronde il concetto stesso di tempo progressivo è relativo, non ha niente a che fare col tempo circolare di altre culture. A questo punto, dove sta la realtà? Io dico sempre che tutto è possibile e niente è vero. Bisogna avere la consapevolezza che tutto è relativo. L’unica cosa possibile, e questo ce l’ha insegnato Claude Lévi-Strauss, è analizzare noi stessi, la nostra cultura, prima di parlare degli altri. Tutte le culture sono belle e mostruose, non c’è quella idilliaca, non è mai esistita. Certo, poi uno capendo gli altri capisce anche sé stesso, è un’osmosi. Non viviamo isolati, è impossibile pensarci tali».
A proposito di questa zona grigia, l'installazione di Batman sulla chiesa madre di Benevento ha provocato polemiche, proteste dei fedeli che l’hanno accomunato al diavolo. «Paradossalmente con gli anni la follia, la stupidità umana mi fanno sorridere sempre di più. Io sono rispettoso di ogni forma di religione, pur essendo profondamente ateo. Per le proteste a Benevento ci saranno ragioni politiche interne che non so e non voglio sapere. Tra l’altro quell’installazione è molto rispettosa: Batman esce da una finestra del campanile ben distante dalla chiesa. Poi non avevo mai pensato che potesse avere le corna ed essere associato al male, proprio perché la realtà la vedi in funzione dei tuoi codici».
E l’arte, come la vedi? Cos’è per te? «L’arte è il pensiero. Uno delle poche cose belle dell’Homo sapiens. Sono sempre stato scettico rispetto all’arte contemporanea come linguaggio d’elite indirizzato a una nicchia di spettatori e fruitori: anche l’uso del fumetto intende utilizzare un linguaggio quanto più riconoscibile. Il problema dell’arte contemporanea è la sua poca incisività rispetto ad altre forme di ricerca: il cinema, lo stesso fumetto. Incide assolutamente meno, ed è un gran peccato. Finché l’arte resta un discorso per addetti ai lavori, interno, evidentemente si pone un problema di riconoscibilità. Basterebbe un semplice sforzo, cercare di aprirsi agli altri, dare segni di riconoscibilità, utilizzare un linguaggio comprensibile. Perché è il pensiero che conta nell’opera d’arte, non la modalità di rappresentazione. La tecnica è relativa, è la lingua che deve aprirsi il più possibile».
Non è anche il prodotto del mercato dell’arte? «Tutto ciò che in Occidente chiamiamo arte si basa sul mercato, altrimenti non esisterebbe. Va bene così, funziona così. Sicuramente è un mercato artificioso, come tutte le cose in questa parte di mondo. Arte, politica, sport: vorremmo che fosse tutto pulito, ma sappiamo che non è così. Non c’è scampo. Conosco molti artisti sottovalutati dal mercato. Bisognerebbe cambiare totalmente sistema».
E un artista che ruolo ha in tutto ciò? «Bisogna stare molto attenti. Gli artisti che lavorano sull’attualità, magari in modo politicamente corretto, sono considerati impegnati, gli altri no. È un errore mostruoso. Già il fatto di fare un certo tipo di lavoro va al di là del politico. Ovviamente il pensiero dell’artista può influire sul sistema, lui è quello che individua la svolta dei tempi, intuisce prima degli altri il cambiamento. È un’idea romantica, lo so, ma ho sempre creduto in questo. Perciò l’artista oggi è fondamentale più che mai, deve cercare di aprirsi di più e non restare in un circuito di nicchia. Forse una delle poche cose che amo del nostro modello è l’aver riconosciuto l’esistenza dell’io, della persona. L’individuo può cambiare il sistema, non c’è dubbio. A maggior ragione l’artista, in tutti i campi».
Ma c’è un confine nelle arti? «No, assolutamente. E ognuno può essere un artista, ci sono modalità di espressione infinite. Dipende. Tutto è possibile, ma niente è vero».
Adrian Tranquilli è nato a Melbourne nel 1966, da padre romano e madre inglese (di Brighton). Tra gli artisti italiani più promettenti e noti all’estero, alterna nella sua produzione video, installazioni e foto. Studente di antropologia con Ida Magli e di pittura con Toti Scialoja, amante del fumetto, Tranquilli mescola tecniche e materiali, simboli antropologici e archetipi religiosi, eroi e antieroi, contestando alla radice l’idea di una cultura dominante e machista. Sposato, vive e lavora a Roma