Inside Art Anno 4 Numero 31 marzo 2007
Incontro con Gianfranco Botto e Roberta Bruno
A contarle sulle dita, basterebbero quelle d’una mano. Sono una rarità, in Italia, le coppie d’artisti unite nella vita come sul lavoro. Un incastro riuscito a Gianfranco Botto e Roberta Bruno, in arte Botto & Bruno. Torinesi, navigano attorno ai quarant’anni condividendo da una quindicina vita e pennelli, alias wall paper, installazioni, video, disegni e tutto quanto possa mettere a fuoco l’universo mutante delle periferie urbane.
Partiamo dalla vostra storia, dal sodalizio umano e artistico.
Roberta Bruno: «Ci siamo conosciuti all’Accademia di Belle arti di Torino. Finiti gli studi abbiamo deciso di lavorare insieme, per cui non ci siamo mai presentati come singoli. Non ci è piaciuta l’idea tardo romantica dell’artista che lavora nella propria intimità. Abbiamo lavorato per anni senza far vedere quello che facevamo e poi, trovata una sintonia fra di noi, abbiamo mostrato i nostri lavori. Il progetto è nato nel 1992 ma le prime personali sono del ’96».
E come nasce la passione per l’arte e per questo tipo di arte in particolare?
RB: «Tutti e due nasciamo in periferia». Gianfranco Botto: «Io vengo da Mirafiori sud e Roberta da Mirafiori nord: ci siamo incontrati all’accademia, in centro, sulla diagonale ideale fra queste due zone. Abbiamo cercato di unire le nostre due inquietudini. Il fatto di vivere nelle zone periferiche, soprattutto nell’adolescenza, era vissuto come handicap, come essere dei cittadini di serie b. Nel nostro lavoro questa sofferenza viene a galla. Lavorare in coppia ci ha permesso di non disperdere la nostra forza espressiva e di non cedere nulla all’ego che ogni singolo artista ha, tramite il confronto e il giudizio critico. All’estero è un fenomeno normale. Ai nostri esordi era ancora più difficile, eravamo guardati con sospetto, la nostra era considerata una scelta non duratura. In realtà chi lavora in coppia ha molto da perdere, si mettono in gioco due vite. Si è più coscienti di quello che si fa, proveniamo da famiglie non agiate, quindi l’idea di intraprendere la carriera artistica è particolarmente ponderata. Questo ha rafforzato il lavoro, gli ha dato spessore. Essere artista non sapevo cosa volesse dire, volevo solo fare qualcosa in più del grafico pubblicitario che inizialmente mi sembrava l’unico sbocco possibile. Bastò poco, tre immagini in un libro di testo mi fecero scattare delle cose».
RB: «Il mio percorso è stato più tradizionale: liceo artistico e accademia. Avevo una sorella più grande e disegnavo sempre, come lei. Mi ha aiutato in questa scelta e i genitori non mi hanno ostacolato. Loro non hanno potuto fare quello che volevano, sono andati a lavorare presto».
Alla base del vostro lavoro c’è la marginalità.
GB: «Senz’altro. Il punto di vista sulle periferie è dall’alto, da intellettuali che guardano ai margini o fanno un viaggio nei paesi del terzo mondo. Noi abbiamo un punto di vista privilegiato, etico, di chi questi luoghi li vive e ha deciso di porci le basi del proprio lavoro».
RB: «Tuttora viviamo a Mirafiori sud, vicino alla Fiat, nel cuore della città periferica. Abbiamo la possibilità di vivere le problematiche e gli aspetti visionari di questi luoghi. Perché il nostro lavoro non è solo di denuncia: vogliamo far comprendere che in periferia c’è anche la vita, non sono solo “non luoghi”. Sono zone che solo a una prima lettura sembrano uguali. Sono, sì, urbanisticamente frammentarie, deturpate dall’edilizia selvaggia. Però sono abitate da persone differenti, vi si svolge la vita vera. La nostra ricerca indaga le realtà degli adolescenti che abitano le zone periferiche per capire come si muovono, se le subiscono o riescono a costruirci il futuro. Quando si parla di periferia la denuncia è implicita, in fondo tutta la città è sbagliata: i margini sono imperfetti come i centri. Oggi forse sono questi le vere periferie. Di certo sono elementi in dialogo fra loro. Il nostro lavoro non vuole dare un giudizio ma semplicemente raccontare cosa succede».
GB: «E creare interrogativi su ciò che è considerato ordinario, banale. Faccio l’esempio del video in mostra a Roma: una palina alla fermata del bus. È un elemento presente nelle periferie che diventa una scultura urbana, è vita vissuta delle persone che attendono a lungo un autobus, interessandosi a cose insignificanti nei tempi morti. Le persone che abitano questi luoghi sono attori importanti, attraverso le tracce che lasciano nel loro passaggio. Il nostro lavoro è anche rubare dalla realtà e riassemblarla. Nelle nostre mostre elementi diversi entrano il relazione, proprio per ampliare la percezione piatta che si ha delle periferie».
Parliamo dell’installazione di Cinecittà: madre e figlia aspettano l’autobus. Da cosa nasce quest’idea e perché in un centro commerciale?
GB: «Le riprese sono girate a Torino, ma dalle immagini non è possibile stabilire dove ci si trova. Sembra l’America latina, o Londra: c’è una sorta di estraniamento anche perché sono zone multietniche. Abbiamo pensato di dilatare questi frammenti di realtà e inserirli nel cinema Impero che abbiamo fotografato in Puglia, a Manfredonia, ma che ricorda Roma, è dechirichiano e decadente. Abbiamo anche realizzato uno spazio circolare, in cui le linee dritte sono totalmente assenti e le architetture paiono uscire dal muro, sono abbandonate, si sgretolano. È un’opera in cui lo spettatore può entrare, non è un semplice osservatore. E la figura femminile è particolarmente presente».
Perché lo sguardo privilegiato sulle donne?
RB: «Per farmi contenta, forse».
GB: «Perché ci sia unità fra il video, in cui le protagoniste sono donne, e l’installazione». RB: «Anche perché le donne ritratte nel video fanno parte di una minoranza, così come nel mondo della musica c’è un’assoluta preponderanza di musicisti uomini. È una forma di rivalsa per la categoria. Allo stesso modo cerchiamo di nobilitare anche chi abita in periferia».
Alcuni critici vi pongono a metà fra De Chirico e Pasolini. Vi riconoscete nella definizione?
GB: «Sono state certamente due figure importanti nella nostra formazione. Della metafisica di De Chirico ci interessa la visione della città, l’aspetto totalmente diverso e misterioso. Pasolini ha poggiato lo sguardo sulle periferie non da intellettuale ma a stretto contatto con le persone che l’abitavano, con gli attori».
Ma come possono due torinesi raccontare Cinecittà, la periferia di Roma?
GB: «Ogni periferia è diversa, ma si possono mettere in relazione gli stati d’animo che questi luoghi suscitano. Per esempio: qui a Roma alloggiamo al Colosseo e sembra di stare dentro una cartolina. Con la metropolitana siamo arrivati a Cinecittà e ci siamo sentiti a casa, non più turisti. Questo lampione gigantesco lo abbiamo di fronte, a Torino. Davanti al Colosseo non riusciamo a sognare, davanti a un pilastro del genere sì».
RB: «Ci sentiamo più affini a questi luoghi, siamo nati in un quartiere simile. Chi abita gli spazi periferici ha un sentire comune universale. Anche all’estero abbiamo avuto questa sensazione di familiarità».
Torino resta la capitale dell’arte contemporanea di questo paese, Roma è la città eterna per antonomasia, però sta conoscendo una rinascita per quanto riguarda il contemporaneo. Come percepite queste due dimensioni?
RB: «Con Torino siamo sempre molto critici, percepiamo i suoi limiti. È una città con tantissime potenzialità “underground” dove nasce tutto ma non ha la capacità di tenere niente. Torino non facilita chi ci lavora, è una città durissima. Non ti regala nulla, e questo alla lunga è un vantaggio perché sei portato a dare molto. È una città-laboratorio molto importante».
GB: «Lì le cose nascono dallo scontro. Devi corazzarti, fortificarti: anche l’arte povera è nata come un’arte di resistenza». RB: «Sul contemporaneo Roma, seppur lentamente e con fatica, sta realizzando delle cose. Non vivendoci non è facile dare un giudizio. Rispetto a dieci anni fa mi sembra abbia uno sguardo più vivo. Per un artista romano penso sia difficile operare a Roma, come per noi è difficile lavorare a Torino. La tua città tende a tenerti in disparte per evitare dinamiche troppo campanilistiche. Rivoli, ad esempio, è un museo così importante che è normale non esponga solo artisti torinesi. Fuori dalla propria città comunque si è trattati meglio».
GB: «Qui ci troviamo bene, è tutto più fluido, c’è più dialogo con diverse entità, almeno per noi che veniamo da fuori».
Le vostre donne aspettano un bus. Botto & Bruno cosa apettano? Riconoscimento no, visto che già lo avete.
RB: «Tante cose. Prima di tutto un piano urbanistico per le periferie. E che ci sia un rispetto maggiore per le persone che abitano in questi luoghi che non hanno bisogno solo di centri commerciali. Ma anche di cinema, di spazi per vivere. Aspettiamo una rinascita di questi che saranno i luoghi del futuro».
GB: «In realtà stiamo rivalutando i centri commerciali. Almeno questo è migliore della media. Ci interessava fare una mostra qui per uscire dall’ambiente elitario dei musei, esporre in un luogo che con l’arte non ha nulla a che fare». RB: «Entrare in una galleria privata intimidisce sempre. In uno spazio del genere la gente si sente tranquilla, è abituata a percorrerlo. Può essere un incentivo per attirare un pubblico differente ».
Continuerete a camminare nel solco delle periferie o progettate qualcosa di nuovo?
RB: «La nostra è una forma di espressione che si “srotola” ed esplicita le varie sfaccettature di quest’idea. Per il teatro abbiamo fatto il Don Giovanni al Carlo Felice di Genova, ed è stato un lavoro che non c’entra niente con la periferia. Ma abbiamo portato la nostra poetica in quel contesto, come un virus».