Inside Art Anno 4 Numero 39 dicembre 2007
Colloquio con Elisabetta Benassi
Rivivere la storia o accostarsi al passato da altre angolazioni. Si può, attraverso l’arte. Elisabetta Benassi, giovane artista romana, si è affermata rapidamente diventando una delle protagoniste della videoarte italiana. Le sue opere, dall’incredibile potere evocativo e simbolico, hanno la capacità di sospingere verso nuove ipotesi immaginative. L’artista affronta temi come la memoria collettiva e personale, la modernità e la temporalità, utilizzando di volta in volta mezzi espressivi differenti, in particolare video, performance e fotografia. Ragazza determinata ma semplice, la Benassi delinea con precisione i termini della sua ricerca, dei suoi lavori e delle sue riflessioni.
Il tuo approccio all’arte è avvenuto attraverso forme tradizionali. Come sei arrivata al video?
«Prima di esporre, negli anni Novanta ho lavorato a lungo nel mio studio. Quel periodo di sperimentazioni mi ha dato un senso di libertà, la garanzia che fossi io a stabilire le regole del gioco. Quando ho iniziato a fare mostre, il video si è imposto quasi naturalmente come il mezzo più giusto, quello con più margini di libertà e minori condizionamenti».
Nei tuoi lavori fai una riflessione struggente e malinconica sul destino e la trasformazione delle cose, lasciando intravedere molto spesso una possibilità nuova e inaspettata come nel caso dell’incontro con Pier Paolo Pasolini nel video “You’ll never walk alone” e nel lavoro “Alfa Romeo Gt veloce 1975-2007”. Che ruolo ha l’immaginazione e la componente visionaria nella tua ricerca artistica?
«Ovviamente non si può riscrivere la storia o cancellare i fatti che non ci piacciono, ma possiamo riconquistare il passato, invertirne la percezione, dare agli eventi un significato e uno spessore nuovo, rianimare la memoria. Non si può far tornare Pasolini ma si può giocare a calcio col suo sosia o girare con la sua macchina, parcheggiandola coi fari accesi che non si spegneranno mai. E facendo questo convocare tutto uno spessore di pensiero, di poesia, di azione civile, di cui l’Italia di oggi, tutto il mondo in effetti, sente molto acutamente la mancanza. Questo è ciò che possono fare gli artisti attraverso l’immaginazione, offrendo a sé stessi e agli spettatori una possibilità per mettere nuovamente in funzione una relazione con il mondo che non sia passiva o interessata. È un invito che riguarda tutti».
In Mirage, Tutti morimmo a stento, Terra e diversi altri lavori ci ritroviamo all’interno di cantieri navali, sfasciacarrozze, ex fabbriche in cui la presenza dell’uomo è intuibile solo attraverso delle tracce. Da dove nasce l’interesse e la passione per questi luoghi e qual è il tuo rapporto col progresso e la modernità?
«Mi interessa l’incurabile imperfezione della tecnica e rendere visibile la velocità di invecchiamento della modernità. Nei miei lavori i luoghi sono i veri protagonisti: tutti sono stati in modi diversi prodotti da una visionarietà, da una tensione verso il futuro che oggi si è trasformata nel suo contrario, in una specie di stasi infinita e senza sbocchi. Per questo le mie opere hanno un valore simbolico ma sono anche delle spie, dei rimandi che ci aiutano a focalizzare il tempo, a non limitarci al suo scorrere superficiale ma a vederne la sua azione in profondità, che è insieme di cambiamento e rinnovamento, ma anche di corrosione e distruzione, senza che nessuna di queste dimensioni prevalga definitivamente sull’altra».
Utilizzi molto spesso l’installazione o la proiezione di grandi dimensioni per poter creare un forte impatto emotivo. Che importanza ha la relazione con lo spazio e il sonoro?
«Una grande importanza. Per me la dimensione del video ha un rapporto molto vicino alla scultura, come nel lavoro Noon, dove gli spettatori erano tenuti “stretti” allo schermo senza avere vie di fuga. Mi servo delle proiezioni per costruire ambienti molto fisici, per produrre cioè uno spazio denso, in tensione, comprimendolo e dandogli uno spessore, una vibrazione, una sorta di frequenza nascosta. In Suolo, ad esempio, un mio lavoro video di quest’anno, ho fatto alcuni esperimenti con dei microfoni a contatto che ampliano e dilatano le frequenze bassissime, inaudibili».
Giri sempre in video o anche in pellicola?
«Solo in video finora».
In Yield to total elation ritorna ancora una volta la scelta di un luogo marginale, anonimo, e la ciclicità del movimento. Può essere letto come un lavoro sulla percezione dei processi temporali e culturali attuali?
«La ripetizione per me è un modo di riconquistare un potere sulle cose, senza sfuggire al presente. Attraverso la ciclicità, il girare in tondo, posso forzare i limiti, far vedere in azione le forze che fisicamente consumano le cose, il mondo, il lato distruttivo della forza dentro un oggetto fabbricato per addomesticarla, per renderla utile. Entrare nel cerchio con la macchina rossa che appare nel mio video, finire tutta la benzina e poi uscire, ricominciare, ma dopo aver visto cosa c’è in fondo».
Attualmente partecipi alla collettiva “Les fleurs du mal” all’Arcos di Benevento. Che lavoro presenti in questa mostra incentrata sul tema della bellezza?
«Due fotografie di grande formato che ritraggono dei terreni fotografati nelle autodemolizioni in giro per l’Italia. Terreni in cui l’entropia si è definitivamente insediata e di cui sembra impossibile poter immaginare un prima e anche un dopo. Sono paesaggi in cui l’orizzonte non si vede più e la nostra stessa presenza è diventata incerta».
L’ARTISTA DEL MESE
Elisabetta Benassi
Elisabetta Benassi è nata a Roma nel 1966. Diplomata all’accademia di Belle arti di Roma, ha cominciato a frequentare lo studio di Nunzio e nel 1988 ha iniziato a lavorare con lui. La prima esposizione risale al 1996 all’interno della collettiva “Fuori centro” che si è svolta a Roma in un enorme garage. Si è affermata nello scenario artistico italiano e internazionale partecipando a diverse esposizioni di rilievo. Numerose e prestigiose le partecipazioni internazionali, tra cui: Prospectif cinéma, al centre George Pompidou (Parigi, 2005) Manifesta 4 (Francoforte, 2002), la II Biennale di Berlino (2001), e il Ps1 di New York (in Special projects, 2000).
L’artista ha inoltre partecipato nel 2005 al Kunst Film Biennale, International competition Museum Ludwig di Colonia. Le sue opere sono presentate anche nell’antologia Cream 3, la celebre pubblicazione della casa editrice londinese Phaidon che segnala gli artisti di spicco della scena mondiale. Attualmente vive e lavora a Roma.
BOTTA & RISPOSTA
L’arte della vita in dieci domande
Cosa sognavi di diventare da bambina?
«Una calciatrice».
Come sei diventata artista?
«Cercando di essere sempre più precisa e sempre più libera».
Cosa vorresti essere se non fossi artista?
«Una giocatrice di dadi».
Hobby, passioni?
«Pesca in apnea».
Come definiresti la tua arte?
«Preferisco lo facciano altri».
Come definiresti la tua vita?
«L’unica cosa che ho».
Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita?
«Nella vita essere onesti con sé stessi».
Chi sono i tuoi maestri, nell’arte o nella vita?
«Mia nonna che a ottant’anni sognava di poter viaggiare nello spazio».
Cosa trovi interessante oggi?
«Il nostro tempo».
Cosa non sopporti di questo tempo?
«La stupidità».