Inside Art Anno 6 Numero 51 febbraio 2009
A come amore. Non è un caso, forse, che nell’alfabeto della lingua, come sul palcoscenico della vita, la a di amore sia in prima fila. Cosa c’è di più essenziale, spesso esiziale, dell’amore? Cosa ci fa, come questo, toccare il fondo o superare noi stessi? Nulla. L’amore è, come la morte, una delle due realtà insondabili, inconoscibili di questa vita. Quindi destinate a fascinare e affabulare le umane genti – ma anche animali, e piante, eccetera – finché queste calcheranno il mondo che gli è stato dato in sorte d’abitare.
E se per ventura ciò non dovesse più accadere, se cioè dovessimo venire a capo pure dell’amore e della morte, incaponirci a svelarne i misteri, poveri noi. Saremmo già in un mondo di là. Disumanizzato più di quanto lo sia l’oggi.
L’arte, poi. Cosa non è stato detto sull’amore, da millenni in qua? Quale sua essenza non è stata filtrata dalla dimensione artistica, declinata in ogni possibile sfaccettatura? Eppure, se sfogliamo i cataloghi d’arte, dalla Venere di Milo all’Origine del mondo di Gustave Courbet, ci accorgiamo che alla voce contemporaneità si registra il nulla. Nulla di nulla: non una mostra, tanto meno opere degne d’allumare il proprio tempo. Neppure questo è un caso: ciò che da sempre ha ispirato legioni d’artisti o sedicenti tali, oltre al quotidiano vivere, è come scomparso dalle voci in catalogo, dalle curatele, dalle pulsioni creative. Tace la scintilla divina nella mente e nel cuore degli umani. Uomini e donne sono troppo immersi nelle proprie solitudini, nella paura d’amare, per crederci ancora. E chi ci crede, povero lui. L’arte, gli artisti contemporanei, sono troppo preoccupati di raccontare il vuoto che li circonda per correre ancora appresso all’amore, il più usato e abusato dei sentimenti.
Sangue merda follia idiozia aria fritta: tutto si macera nel calderone della contemporaneità, tranne l’amore. Bolle, nel magma dell’oggi, quello che solo menti perverse possono separare da esso: l’eros. Ribolle fino a essere divenuto, esso sì, segno ed essenza dell’arte, deprivato d’ogni parvenza di realtà, come di rottura realmente libertaria.
E qui siamo alla terza a: anarchia. Di quanto ci sia bisogno di questa al mondo d’oggi non è solo la così detta caduta delle ideologie a dirlo. Lo chiede il nostro stesso tracciato vitale, se non vorremo sostituirlo del tutto col codice a barre. Molto tempo prima dell’avventarsi del cristianesimo sulle nostre carcasse, la Roma delle origini festeggiava il 15 febbraio la fine dell’inverno e la fertilità femminile con un rito: i Lupercalia.
Sacerdoti e giovinastri ignudi correvano giù dal Palatino ululando e frustando tra le cosce con stringhe di pelli di lupo ogni femmina che gli si parava innanzi, che data la liberalità dei tempi neppure portava mutande e per solito si prestava volentieri alla bisogna. Il tutto finiva come si può immaginare. L’allegra festicciola resse finché papa Gelasio I proibì anche l’ultimo rito pagano, poi sostituito dai riti carnascialeschi e nella tradizione liturgica in parte dalla Candelora, cioè la celebrazione della verginità di Maria, in parte dal culto di san Valentino. Vescovo ternano (o patrizio romano) martirizzato e divenuto simbolo d’amore eterno. Oggi che il casto Valentino si è ridotto a supporter di cioccolatini e orsacchiotti, come già il povero santo Nicola, alias Babbo Natale, di regali tout court, il cerchio è completo e pare chiudersi alla voce mercato. Se questo sia stato un progresso, fate voi.
Almeno,godiamoci il carnevale che ci resta. Con amore.