Inside Art Anno 6 Numero 53 aprile 2009
E’ dal cielo che l’uomo aspetta un cenno che dia un senno al quotidiano strisciare, al sudare, al faticare per mangiare
*Carri fiammeggianti, cavalli alati, ippogrifi, draghi, streghe, angeli, ufo. Da sempre gli uomini scrutano il cielo in cerca di qualcosa di altro, di alto. È dal cielo che l’uomo aspetta un segnale cruciale, un cenno che dia un senno al quotidiano strisciare, al sudare, al faticare per mangiare. In casi particolari perfino il cibo, la manna, piove da lassù. Nell’aria non c’è miseria, al cielo si aspira e ci si ispira, nel cielo ci si trasfigura. La forza di gravità non è vissuta come una semplice legge fisica ma come una condanna immeritata, una pena maledetta, una disdetta che impedisce la piena realizzazione del sogno, l’emancipazione dal bisogno, il superamento dei margini imposti dalla crosta. Non c’è pantheon che non contempli schiere di esseri celesti, entità svolazzanti, corpi trascendenti e aeriformi.
I santi assunti nel regno dei cieli, i beati glorificati e raffigurati affacciati tra le nuvole, non sono altro che l’illusione della materia di potersi un giorno svincolare dagli obblighi dell’attrazione terrestre e affrancarsi dal peso della fisicità, raggiungere uno stato di imponderabilità, farsi rapire da fili invisibili che la sollevano dalla superficie. Gran parte della pittura religiosa si presenta ammantata da un onirismo volteggiante, dominato da corpi levitanti, galleggianti, libranti, plananti, gratificati dal dono della leggerezza, estasiati dalla propensione all’ascensione. Emanciparsi dalla carne, involarsi, separarsi dal suolo, cambiare ruolo. Tanto per fare un esempio filologicamente empio, L’Assunzione della Maddalena di Giovanni Lanfranco è un’aeropittura prematura, ma pur sempre aeropittura, di tipo particolare, aeropittura a propellente spirituale. Dapprima i marchingegni a propulsione muscolare, gli strumenti icareschi, i dispositivi leonardeschi, gli aquilotti implumi e giganteschi, i progetti pazzeschi – a pale rotanti, a vapore, a pagaia – poi le mongolfiere, gli aerostati, i palloni sfrenati, lanciati in scalate funamboliche, simboliche, impegnati in saliscendi di aria calda, aggrappati a funi burattinesche, imbracati a enormi gonne merlettate e gonfiate, prede dei ghiribizzi del vento, baroccheggiante e baloccheggiante rivincita sullo spavento del vuoto, giostra di pura vertigine.
Infine vengono i dirigibili e le macchine volanti vere e proprie accompagnate dal canto dei motori di Gabriele D’Annunzio, Adone Nosari, Filippo Tommaso Marinetti, Paolo Buzzi, Luciano Folgore. Dal rombo delle eliche scaturiscono liriche che descrivono l’emozione del distacco, dell’attacco alle stelle, del duello più bello e folle che è quello che si ingaggia con qualcosa che non si vede, che è in noi, che siamo noi. La silhouette dell’aereo diventa, per gli scrittori e i successivi aeropittori, la nuova croce di una religione fatta di tecnologia, ardimento, record, abitata da una divinità a scoppio, odorosa di benzina esplosiva e non del melenso incenso delle chiese chiuse alle eccitazioni del nuovo.
Volo dunque sono, solo, a tu per tu con lo spazio, in diretto contatto con dio, con io. Fernando Spiridigliozzi pubblicherà un singolare San Francesco in aeroplano, Saverio Laredo de Mendoza La carlinga armoniosa.
Marinetti poco prima di morire scriverà L’aeropoema di Gesù. Si comincia a guardare il mondo da lassù, a invertire la prospettiva, a sentire la necessità di un altrove incontaminato, sconfinato, di futuro realizzato. Aeroceramiche, aerovivande, aerodanze, aerocravatte, aeroteatro, aerolibri, aeroplastica, aeroarchitettura, aeromusica, ogni attività sembra risentire della tentazione a salire, salire, salire. Ma sarà proprio un futurista, un futurista russo, Vladimir Majakovskij, a portare alle estreme conseguenze le premesse stesse del movimento, a radicalizzarle al punto tale da superare quello che in realtà è il limite della visione marinettiana basata su una concezione superomistica, ultraistica, neomistica. Majakovskij anticipa la realtà, capta la novità con quelle che Pound definisce le antenne dei poeti, antivede ciò che sarà il mondo di domani - ovvero d’oggi - un mondo in cui il pilota non è più un eroe, un campione, un asso, in cui gli aeroporti non sono finestre affacciate sull’ignoto, sul mistero, ma luoghi comuni, neutri, privi di fascino particolare e di attrattive spettacolari. Sono semplici aree di parcheggio, di bivacco, di attesa nervosa tra una cancellazione e uno sciopero, tra una coincidenza mancata e un ritardo: non-luoghi, vuoti, tutti uguali, tutti banali.
Vladimir Majakovskij col suo poema Il proletario volante (1925) trasferisce il mito del volo in una società in cui le conquiste del proletariato sono talmente avanzate che l’aereo è messo al servizio di ciascuno, è ormai un oggetto familiare, quotidiano, un accessorio ordinario di lavoro e di svago, un mezzo collettivizzato, un diritto e un piacere. Lo usano le balie per cullare i neonati e portarli a spasso, i bambini per giocare a pallone, i pastori per pascolare, i cucinieri per ristorare il popolo e via dicendo. L’aviatore diventa un lavoratore come un altro, cessa di incarnare il temerario avventuriero che sfida l’assoluto, l’esploratore che varca i limiti della conoscenza, il precursore.
Come Lenin si auspicava uno stato che potesse essere governato da una semplice cuoca, Majakovskij concepisce un universo volante generalizzato, dove chiunque ha il suo aeroplanino personale, entra e esce dalle case anch’esse alate, se ne serve per andare in ufficio, al cinematografo (una sorta di fly-in), a fare l’amore. “Operaio!/ Contadino!/ Verifica toccando/ che/ anche i cieli/ sono tuoi!”. È una svolta ironica, ludica, pupazzettata, quasi disneyana, ma al tempo stesso è un lucida prefigurazione del futuro, del presente, del mondo contingente in cui nulla più stupisce. Paradossalmente, più le macchine erano pionieristiche, avanguardistiche, giocattolesche, traballanti trabiccoli in legno e tela, instabili bagnarole, e più esercitavano attrazione, emozione, più solleticavano l’immaginazione di coloro che si definivano i primitivi della nuova sensibilità. Ora che il volo si fa ipertecnologico, cosmico, esoplanetario, satellitare, ultraorbitale, sembra perdere il fascino poetico, il mordente, non possiede più l’incanto seducente che scatenava nei neofiti del primo del Novecento, è archeologia di sentimento. Blériot, Keller, De Pinedo, Ferrarin, Baracca, Nobile, Agello, Lindbergh, Amelia Earhart, sono figure ancestrali, lari di un culto primordiale, fari nella nebbia, sabbia memorabile di una clessidra retrotarata. Il volo come esperienza di sapienza e/o come favola (penso a Antoine de Saint Exupéry soprattutto), anche a causa dei ripensamenti post bombardamenti, nel secondo dopoguerra, cessa di galvanizzare gli artisti.
Perfino Gagarin, il programma Apollo, l’allunaggio, non hanno indotto a una creatività degna di nota, di alto lignaggio (se si fa eccezione per certo spazialismo, per l’aviatore pittore Roberto Crippa e per il curioso episodio di Agrà, il fugace movimento agravitazionale fondato da Sante Monachesi, e per le prove tardive di Franco Angeli). I cieli di Alighiero Boetti risultano affollati di aviogetti tanto da comunicare l’idea di un ingorgo, di un intoppo, di un troppo. Si sottraggono a questa caduta esponenziale d’interesse la fantascienza, il cinema e il fumetto (Dan Dare, Silver Surfer, Jeff Hawke, soprattutto), generi maggiormente in contatto diretto con gli umori popolari, con le suggestioni basilari. Ora non si vola quasi più con la fantasia, si naviga piuttosto, si guada e si guata lo spazio cybernautico, all’aria reale si è sostituita l’acqua virtuale. Si è passati dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Val dunque la pena di rimodellare gli aeroporti per renderli nuovamente degli ambienti sorprendenti, fornirli non solo di free shop, di bar, di snack, ma attrezzarli con aree espositive rappresentative dei fermenti che si agitano nelle menti degli artisti locali, capaci di produrre incroci, intrecci meticci derivanti dai transiti, dagli sbarchi, dagli scambi. Si tratta di ricavarne zone per allestimenti interagenti, di disseminarli di schermi per interventi digitali, di improvvisare happening coinvolgenti le genti di passaggio. Inoltre si potrebbero decorare e colorare le ali e le fusoliere per ottenere quadri-getti, jet-painting, arte da cielo – non da muro – sculture gonfiabili, nuove nuvole a elio, palloni frenati sagomati, nastri trasportatori per bagagli e scale mobili a disegni animati, pezzi di land art da ammirare in fase di decollo o atterraggio, complementi di paesaggio. Allestire musei flessibili, deperibili, volatili, farne degli antimausolei, degli stimolatori, dei territori aperti, dei motori cerebrali capaci di far spuntare le ali a cani & porci.
* da Volare!, cortesia dell’autore e De Luca editori