Inside Art Anno 8 Numero 79 settembre 2011
L'ironismo della vita
Un continuo susseguirsi di tragicommedie e “black humour”: così l’esistenza per il giovane talento lombardo che ha fatto del gioco cibo per la mente e cifra stilistica
Se l’arte è gioco, riso, divertimento, nessuno gioca e si diverte come lui. Un’immagine acquisita, digerita, satura rinasce a nuova vita. Basta rielaborarla e rinominarla e il gioco è presto fatto. Com’era e com’è, o meglio come la ripresenta Francesco De Molfetta, in arte Demo: l’originale non proprio snaturato, ma arricchito di un alone di vitalissima ironia. “Humor” artistico come nella migliore tradizione ispirata al genio di Marcel Duchamp, Gino De Dominicis, Alighiero Boetti. Ma l’umorismo è anche bello, vi si respira quella stessa deferenza per la forma estetica che ha fatto grande Jeff Koons. Ecco, Demo riesce a barcamenarsi tra gli insigni colleghi, creando un linguaggio nuovo, personale e ormai riconoscibile. Quel Batman ciccione non può che essere suo, così come il superman con la faccia del presidente del consiglio. Milanese, classe 1979, De Molfetta nasce come regista di cortometraggi e insegnante di mimica teatrale. Poi decide di concentrare forze ed energie sull’arte contemporanea: «Quello che mi riesce meglio», ammette.
A metà strada tra surrealismo e “new pop”, Demo ha la capacità di rielaborare oggetti, elementi, materiali, affibbiargli un titolo azzeccato e creare così un vero e proprio racconto, in bilico tra l’immagine e la parola. Un meccanismo ben collaudato, uno stratagemma narrativo che ha mutuato dal cinema e dal teatro, ambiti frequentati per anni, poi accantonati per l’urgenza di seguire altre strade. Ma aver girato documentari e fatto l’insegnante di mimica teatrale gli ha sicuramente giovato. E nelle sue opere, quasi sequenze cinematografiche, il simbolo della cultura di massa viene rimaneggiato e presentato sotto una nuova luce. La chiamano “new pop”, ma anche surrealismo. In definitiva è la cifra stilistica adottata da un giovane artista che sognava di diventare venditore di giocattoli e forse, in qualche modo, come lui stesso afferma, c’è riuscito.
«All’anagrafe sono registrato come Francesco De Molfetta. Ma nessuno mi chiama così. Sono da sempre per tutti il “Demo” – così si presenta, nel testo della sua monografia, in uscita per Cambi editore – So per certo che il mio lavoro riguarda l’infanzia. La mia soprattutto. Credo che tutto abbia origine da lì. L’“imprinting” estetico formativo avviene nei primi anni di attività cerebrale. Quando la gente mi faceva la fatidica domanda “che cosa vuoi fare da grande?” io non avevo dubbi, rispondevo: il giocattolaio, voglio vendere i miei giocattoli. In un certo senso è quello che faccio. Vendo giocattoli che parlano di me, della mia poetica e dei miei drammi. Resine, colori e plastiche prendono forma per trasmettere contenuto. “Outsider, borderline, glamourchic, intellettualeludico, postpop, old school”: le definizioni degli altri mi riguardano relativamente.
L’arte, la mia arte, è il mio modo spontaneo e sintetico di comunicare sentimenti e riflessioni attraverso bellissime illusioni. Proprio come i giocattoli, le mie opere sono uno strumento per generare emozioni, per inventare nuovi modi di giocare, per riflettere su come le immagini influiscano sulle nostre vite. Immagini già molto conosciute e assorbite dalle masse sono le migliori quando vengono manipolate e diventano gioco, proprio perché sono le più diffuse dai media, l’elemento destabilizzante del mio intervento crea un cortocircuito ironico molto più efficace. Oggi tutti dicono che è già stato fatto tutto, ogni segno, ogni tema è stato ampiamente esplorato e valutato. Per cui nel mio lavoro ho preferito attingere al conosciuto, all’esistente, alle icone e ai simboli della mia infanzia vissuta negli anni ‘80: c’è già un campionario iconografico talmente vasto che basta solo elaborarlo con la mia chiave di lettura e fargli appunto assumere un altro significato. Un apprendista Lupin, insomma. Dicono per questo che sono “new pop”. Non so ancora bene cosa significhi questa definizione. Penso che ogni definizione sia ormai stanca e appesantita, proprio come il mio Batman. Forse dovremmo riconsiderare le definizioni e l’insiemistica. Forse questa crisi mondiale è un pretesto per pensare di farlo veramente. Forse è l’occasione per rivedere icone, idoli e ideali che ora si sono appannati e hanno perso il loro “glamour”. Forse io, nel mio piccolo, nel mio grande laboratorio in periferia, sto iniziando a “rivedere” e a “ripensare”, a rimboccarmi le maniche per dare una visione più nitida delle cose. Delle cose che riguardano tutti: le “cose” del popolo, potere ai simboli del popolo».
Tutto chiaro, ma qualche domanda ancora va posta all’irriverente Demo.
Come in tutte le storie che si rispettano, cominciamo dall’inizio. Si può parlare di folgorazione, di caso o l’approdo all’arte è avvenuto seguendo un percorso graduale?
«In un certo senso l’arte è una vocazione, come una fede. Sono sempre stato contrario agli ambienti accademici, non ci credo. Più si cerca di forzare l’approccio all’arte, di razionalizzarlo, meno si riesce. Le cose nascono, come sosteneva Alighiero Boetti, “dalla necessità e dal caso”. Io ho iniziato così: correggendo quello che non piaceva. Partendo dall’esistente quindi. Aiutato da una piccolissima ma efficace squadra di aiutanti plurispecializzati, perlopiù imbianchini».
Da Francesco De Molfetta a Demo. Cosa implica questo passaggio?
«Francesco De Molfetta è il mio personaggio quotidiano, quello che va alla posta a pagare le bollette, che va a fare la spesa al supermercato. Demo è il mio alter ego mascherato, l’altra metà di me che, come l’eroe pipistrello, ha come missione di salvare gli abitanti di Gotham city dai gravi inestetismi della contemporaneità».
Consideri Alighiero Boetti e Jeff Koons dei punti di riferimento o comunque degli autori che ti hanno dato qualcosa. Come ti sei appropriato, nel lavoro, dei loro insegnamenti?
«Studiando molto, sentendo ed educando il mio senso estetico, ascoltando quello che avevano da dire. Come un alpinista mi sono sostenuto sui loro picchetti nella parete verticale e da lì ho proseguito il mio cammino. Alighiero mi ha incoraggiato a pensare, Jeff a godere delle forme».
È difficile per un’opera d’arte indurre contemporaneamente al sorriso e alla riflessione. Un colpo che ti riesce senza fatica. Qual è il segreto?
«Il segreto? Togliere. Una persona saggia una volta mi disse che il vero maestro è colui che riesce a togliere fino a raggiungere l’essenza di un concetto, di un’idea, di una forma. Non chi sovrappone pesi, bensì chi li elimina, fino ad arrivare alla chiarezza, al nocciolo. Questo è il segreto. La chiarezza sintetizza un pensiero, questo poi porta alla riflessione e al sorriso, proprio perché non c’è mistificazione».
Da piccolo sognavi di diventare un venditore di giocattoli. Oggi, in qualche modo, è come se ne costruissi. Opere come giochi di forme e di parole per grandi?
«Uno slogan che mi è rimasto in mente fin da bambino è: “Il giocattolo: cibo per la mente”. Per me è stato proprio così: le forme che per prime hanno influenzato il mio immaginario sono state quelle dei giocattoli della mia infanzia che per fortuna non è stata compromessa dai videogiochi e dalla freddezza degli schermi illuminati ma da materie plastiche, colorate, assurde. Il mio lavoro è iniziato da quello, dal gioco. Unito alla parola, associata più avanti negli anni».
“Calembour”, ironia e divertimento dosati sapientemente caratterizzano ogni tuo lavoro, da cosa vengono ispirati?
«Dalla mia vita che è un continuo susseguirsi di tragicommedie e “black humour”. Come dice il mio caro amico Giuseppe Veneziano: la vita va presa con ironismo».
Nel mondo esclusivo, “glamour” e a volte inaccessibile dell’arte contemporanea, come si muove un ragazzo irriverente e a tratti sovversivo?
«Stando alle regole del gioco: creando proprio forme esclusive e “glamour” che ammiccano allo “status symbol”. Ma, in realtà, con la mia imperfezione voluta, ne sovvertono le regole».
Come consideri il pubblico e la critica, quanto riesci a condizionarli e come li seduci?
«Il pubblico è indispensabile fruitore e interlocutore delle mie malefatte, mi piace stuzzicarlo per vederne le reazioni. La mia arte è un modo per comunicare ai critici e alla gente come la penso e come la vedo, talvolta prendendo in giro il mondo stesso dell’arte».
Cos’è per te surreale e cosa “new pop”?
«Surreale? Presentarsi a una mia mostra chiedendo al pubblico dov’è l’artista? e ascoltare i commenti che fanno gli spettatori di fronte alle opere. “New pop”? La mia ultima scultura, una reinterpretazione del più classico dei classici personaggi di sempre: Pinocchio. Ma non vi dirò null’altro».
Progetti in cantiere da settembre?
«Il primo appuntamento ai primi di ottobre con il premio Cairo al museo della Permanente di Milano. Poi ho realizzato una grafica per una borsa del “brand” Henry Cotton’s che è stata prodotta in una “edizione limitata” per la “Vogue fashion’s night” di quest’anno. Avrò una personale a Los Angeles a novembre e un’altra a Singapore. Sto lavorando anche a un’edizione di sculture in ceramica che presenterò in anteprima a Montecarlo, a dicembre».
Oltre a questi appuntamenti, De Molfetta partecipa, fino al 2 ottobre, alla collettiva Tra il sublime e l’idiota, a cura di Luca Beatrice. L’evento è inserito all’interno della Biennale internazionale dell’umorismo di Tolentino (Macerata). L’esposizione presenta le opere di 29 artisti che nella loro carriera hanno saputo usare il linguaggio dell’ironia per affrontare in chiave critica il reale. A volte amplificandone gli aspetti tragicomici, altre diventando voce di denuncia sociale e offrendo un sorriso amaro, altre ancora dissacrandone i miti e regalando al pubblico l’occasione di riderci sopra. Una cornice perfetta per il Batman troppo goloso di Demo, che con una divertente intuizione si trasforma nel tenero Fatman. Un altro sorriso gentilmente regalato al pubblico dall’artista giocattolaio.
L’ARTISTA
Dal palcoscenico agli spazi museali
Francesco De Molfetta è nato il 29 maggio 1979 a Garbagnate Milanese. Ha conseguito la maturità artistica, frequentato la facoltà di lingue e letterature straniere e nel contempo si è diplomato in regia teatrale. Il suo lavoro è stato esposto in Italia, tra gli altri, da Franco Toselli, Artoteca, galleria 2000 e novecento, Ronchini, Ermanno Tedeschi gallery, Duetart gallery, Ar contemporary gallery, galleria Vinciana, galleria 2000, galleria Luisa Delle Piane. Nel 2000 ha collaborato con Artedamangiare-mangiarearte realizzando un’installazione per il Macef. Ha ricevuto una menzione al trofeo Brera 2000 e vinto il concorso della città di Biella, partecipando a una mostra indetta dalla fondazione Pistoletto. Ha disegnato e prodotto una linea di lampade-sculture per l’arredo. All’estero le sue opere sono state esposte alla Tokyo gallery, al Museo d’arte di Besançon in Francia e dalla galleria T20 di Murçia, in Spagna. Ha realizzato quattro cortometraggi, vincendo l’Ambrogino d’oro. e ha diretto cinque spettacoli teatrali. Odia il calcio, non fuma e non beve alcolici, ma adora gli animali, il cioccolato e il rock. Vive e lavora a Milano.
DICONO DI LUI
Igor Zanti
«Francesco De Molfetta mette nelle provette del Piccolo chimico storia, cinema, arte, comunicazione, musica; mixa e riscalda, aggiunge essenza di ironia e gocce di cinismo, sperimenta tecniche nuove che vanno dalla ceramica alla scultura in bronzo, passando per la resina scolpita; agita divertendosi come un pazzo, spiazzandoci, prendendoci in giro, facendosi beffa dei ben pensanti, e canticchiando, con sguardo malandrino: “Cosa resterà di questi anni Ottanta, Novanta, Duemila se la mia Panda suona il rock?”». (da Democracy, Carlo Cambi editore, in corso di pubblicazione)
Alberto Martini
«Ma Demo chi è? Se fosse una città, sarebbe il Paese dei balocchi. Se fosse un frutto, sarebbe una banana. Se fosse un animale, mi verrebbe da dire un procione, ma la scelta ricade inevitabilmente su una molfetta. Se fosse una canzone, sarebbe Una zebra a pois di Mina. Se fosse un film, sarebbe Accattone di Pier Paolo Pasolini. Se fosse un cibo, sarebbe un piatto di strangolapreti. Se fosse un personaggio di una fiaba, sarebbe Brucaliffo di Alice nel paese delle meraviglie. Se fosse un mezzo di trasporto, sarebbe o una Topolino o un’Ape, ma anche una Vespa. Se fosse un artista, sarebbe una via di mezzo tra Duchamp e Teomondo Scrofalo». (da Democracy, Carlo Cambi editore, in corso di pubblicazione)
GLI EVENTI
Dalla collettiva di Tolentino alla borsa per Henry Cotton’s
Oltre a partecipare alla collettiva Tra il sublime e l’idiota che si tiene a Tolentino, curata da Luca Beatrice, fino al 2 ottobre, De Molfetta mette la sua creatività al servizio del marchio di moda Henry Cotton’s. Giovedì 8 settembre, a Milano, si rinnova la partecipazione del marchio alla “Vogue fashion’s night out”, serata all’insegna dello “shopping” e della moda a scopo benefico. Per questa occasione l’artista milanese ha ideato una borsa dal titolo Cambiar bandiera. La grafica riproduce da un lato la bandiera inglese, i cui colori si attorcigliano nel manico e si fondono con il tricolore italiano, tracciato sulla tela da tre imbianchini. Il ricavato della vendita della borsa, realizzata in 300 pezzi, andrà a sostenere l’intervento di recupero e valorizzazione di una cascina milanese.