Inside Art Anno 8 Numero 80 ottobre 2011
Il giovane che trionfa al Talent prize 2011 fa della sua arte una ricerca sui simboli sociali
Se si sdraiasse sul lettino di qualche psicologo, Giulio Delvè, vincitore della quarta edizione del Talent prize, il premio d’arti visive promosso dalla Guido Talarico editore, sarebbe sicuramente etichettato come una persona che pensa “lateralmente”. Nessuna patologia incurabile, solo uno che, parafrasando la lezione di Edward De Bono, analizza la vita con un approccio indiretto, utilizzando diversi punti di vista, in modo da avere una rosa di soluzioni e di scelte possibili. Insomma, al giovane artista partenopeo, appena ventisettenne, piace scoprire la realtà poco a poco, tenendo lontani gli schemi fissi e le soluzioni immediate dei problemi. Questo stile di vita, elevato quasi a religione, viene applicato alla sua arte.
L’esempio più calzante e pragmatico è dato da una delle sue opere, Elmo (creata nel 2009): una serie di fotografie scattate in sequenza che ritraggono il volto di Delvè coperto da un cimiero durante una cerimonia familiare. «L’opera – spiega l’artista – è il risultato di un atto performativo: il tentativo, attraverso il gioco, di sopravvivere a una situazione scomoda, dove non ti senti a tuo agio e l’elmo sintetizza perfettamente un modo per estraniarsi da quel contesto».
«Per questo – continua Delvè – se dovessi trovare un’espressione che possa spiegare la mia ricerca userei “pensiero laterale”, perché le mie opere non sono altro se non un raccoglitore di significati apparentemente sconnessi».
Napoletano di nascita, berlinese d’adozione, Delvè è giovane eppure ha alle spalle un percorso dai confini facilmente individuabili. Studia al liceo scientifico per passare nell’ultimo biennio all’artistico. Si diploma all’accademia partenopea di Belle arti. In quelle aule vince una borsa di studio per Berlino. Si trasferisce in Germania e trascorre un anno in quella che viene considerata da molti la capitale europea dell’arte contemporanea. La sua è una ricerca scrupolosa. Un’indagine meticolosa del reale che fa di un’opera non solo un oggetto esteticamente accattivante, ma una particolare finestra da cui guardare il mondo.
«Per me è facile parlare di arte e spiegare con questa ciò che mi circonda. L’ho sempre fatto. La mia è una ricerca artistica che rielabora tutto quello che mi è vicino emotivamente e fisicamente. Mi piace lavorare molto sull’archeologia urbana, cioè su quegli elementi che rappresentano e compongono la nostra società, il nostro vivere quotidiano».
È anche per questo, per un’arte che si crea e riesce a comunicare, che Delvè rifiuta modelli preconfezionati e analisi condotte già da altri. Non ama i paragoni con i nomi più importanti, mette alla berlina l’idea che l’arte, come la storia, non sia altro se non un cerchio capace di compiere sempre lo stesso giro. A lui interessa l’analisi delle esperienze umane e il loro ripresentarsi in forme e modalità diverse negli anni. Lo strumento per far questo? Le mani che mescolano materiali diversi. La scultura e non solo.
Vinci il Talent prize con una scultura. Ricondurresti tutta la tua produzione a questa tecnica?
«Assolutamente no. Come amo sperimentare diverse soluzioni per spiegare la realtà, allo stesso modo mi piace mettermi in gioco con strumenti sempre diversi, come la fotografia o la pittura. Della scultura mi accompagna sempre il concetto di “fare scultoreo”, cioè, anche quando scatto una foto ricerco sempre le caratteristiche proprie di un’opera a tre dimensioni, come la profondità o la sua collocazione nello spazio, o ancora la plasticità. Odio il manierismo e per questo mi annoio a lavorare sempre con la stessa tecnica. Ormai abbiamo così tanti strumenti da poter mettere al servizio delle nostre idee che sarebbe molto limitante per un ricercatore, quale l’artista, fermarsi a un unico mezzo».
Guardando il lavoro con il quale il giovane ha vinto il Talent prize, “Black dog”, si capisce anche perché. “Black dog”, Cane nero per gli italianisti puri, rimanda al titolo della celebre canzone dei Led Zeppelin.
«In realtà – spiega Delvè – la scultura rappresenta un lavoro d’indagine, slegato dal testo musicale del gruppo e più vicino, invece, al mio modo di fare arte e cioè di generare una riflessione su ciò che un simbolo rappresenta nella collettività».
Del resto anche il titolo della canzone è nato quasi per scherzo, senza nessun richiamo diretto al testo.
«C’erano loro che suonavano ed era una ricerca prettamente strumentale. Un levriero nero girava per lo studio e da lì hanno preso il nome per l’opera».
Il “Black dog” del vincitore del Talent è un monolite, il calco di un ortaggio, per la precisione il calco di un cavolo romano, connesso alle teorie legate all’ipnotismo, all’alterazione percettiva dell’uomo e alla ghiandola pineale.
«Questa scultura, attraverso il concetto di similarità, rimanda all’iconografia e al simbolismo ed è parte di un progetto più ampio che sto conducendo proprio a Roma – spiega Delvè – in cui cerco di indagare punti di contatto, affinità e legami tra fatti e concetti apparentemente lontani e sconnessi ma che rappresentano un punto di vista trasversale nell’analisi di un passato storico che diviene strumento di conoscenza e di comprensione del nostro vissuto». La scultura, infatti, proprio per la sua forma e il richiamo all’organo percettivo della ghiandola pineale assume i contorni di una pigna e questa «ha un significato molto profondo, radicato nella storia, e rielaborato da moltissime culture», spiega l’artista, che aggiunge: «A me interessava capire come, un simbolo, restando fedele a stesso, cambiasse il suo significato nel tempo».
Le tue sono opere molto lineari, dove le forme e i colori appaiono discreti e per nulla invasivi. Eppure hanno la pretesa di raccontare il mondo, che è tutto fuorché lineare, pulito, essenziale. Come riesci a far dialogare la confusione del nostro presente con l’essenzialità dei tuoi lavori?
«La civiltà occidentale ci vuole spettatori disattenti. Noi guardiamo ma non osserviamo, sentiamo ma non ascoltiamo. Siamo tartassati da mille notizie e non abbiamo il tempo né la capacità di masticarle, elaborarle e digerirle. Alcuni lavori sembrano essenziali a livello formale ma credo, invece, siano tutti molto complessi perché parlano di fenomeni sociali. Faccio un esempio: con l’istallazione “And if a double-decker bus” l’oggetto ultimo del lavoro sembra un immenso ammasso di catene, ma il lavoro che l’ha generato è stato molto diverso e con un suo determinato perché. Mi sono svegliato all’alba e armato di una gran tenaglia sono andato in quel posto, per alcuni elevato a luogo ideale per l’amore, (ponte Milvio a Roma) e ho tranciato molti lucchetti, catene, chiavi attaccate dagli adolescenti che suggellano così una storia importante. Ho preso il loro amore e l’ho affidato all’immortalità dell’arte. O ancora l’opera “Cancel”, in cui porto in mostra un pezzo di cancellata proveniente da una chiesa di periferia. Ho furtivamente staccato un pezzo di quel cancello, sugli spuntoni del quale chi gioca a calcio nel cortile recintato aveva messo delle lattine per non far bucare il pallone. Con un gesto così essenziale, corale e spontaneo quei ragazzi avevano invalidato la funzione offensiva del cancello, annullandone la barriera, defunzionalizzando dal suo uso originario quello che era dispositivo di separazione per renderlo, invece, perfettamente funzionale al proseguimento della loro attività ludica. Ho voluto immortalare questa azione, questa storia».
Le tue sculture sono la somma di vari elementi: luci, tessuti, frammenti di strumenti musicali, legno. È necessaria una così nutrita gamma di materiali per esprimere un pensiero?
«È una naturale conseguenza della mia ricerca artistica, l’assemblaggio in sé contiene il processo narrativo, il concetto di trasversatilità e intersezione, mescolanza di significati causata dalle interazioni di diverse informazioni, di segni che, relazionandosi, danno vita a un terzo significato. Questo è ben visibile nell’opera “I can play”, un lavoro che parla del tempo e del fallimento che ho esposto in una mostra intitolata “Memories”, tenuta al Circolo degli artisti di Napoli nel 2009. L’esposizione si sviluppava intorno al concetto di memoria e il mio intervento consisteva nel far tornare a suonare un pianoforte abbandonato da anni. Ho creato una sorta di gabbia con tante lastre di legno che circuivano lo strumento e permettevano il suono. Alle loro estremità, infatti, si trovavano degli uccellini di resina, che picchiettavano direttamente sulle corde del pianoforte a coda. Avevo creato una sorta di ingranaggio dove dei semplici motorini, girando, sollevavano le aste facendo ricadere gli uccellini sulle corde. Da questo movimento veniva fuori la melodia».
Possiamo allora paragonarti a un Calder un po’ primitivo?
«Forse mi sento più vicino a Leonardo che a Calder, o ai tanti, come Duchamp, che hanno lavorato con la cinetica e le macchine. E c’entra ben poco con il rapporto uomo-macchina, le mie opere servono per parlare dell’uomo».
I tuoi lavori indagano, come abbiamo visto, la realtà. Spiegano fatti, storie, abitudini ricorrenti. Sei un nostalgico?
«Proprio in questo periodo riflettevo sul significato del termine nostalgia e lo associavo in particolare a questa situazione: quando ti rivedi con gli amici d’infanzia, e a un certo punto ti rendi conto che non sapete più cosa dirvi, che cosa fai? Ricordi solo i bei tempi. I nostalgici li trovo noiosi».
Nella vita di tutti i giorni sei un abitudinario o un rivoluzionario?
«Al mattino prendo sempre un caffè».
Come spiegheresti l’arte a un bambino?
«Nello stesso modo con cui la spiegherei a un adulto, ma con la certezza che il bambino, non essendo ancora contaminato da una serie di condizionamenti e regole sociali, non solo sarebbe molto più predisposto all’apprendimento diretto, ma ne evidenzierebbe perfino gli aspetti non immediatamente percettibili. La semplicità con cui elaborano un ragionamento molte volte è geniale, risultano più concettuali di Yoko Ono o Gino De Dominicis. Nella pratica seguirei l’esempio di Bruno Munari che in Italia ha iniziato per primo a far “giocare con l’arte”».
L'ARTISTA
Da Napoli a Berlino, scoprendo la realtà
Giulio Delvè nasce a Napoli l’11 agosto 1984. Cresce a “pane e arte”: il suo bisnonno era un pittore, suo padre gli ha trasmesso la sensibilità per le espressioni figurative. I suoi due fratelli sono uno musicista e l’altro artista. Frequenta, sempre a Napoli, per tre anni il liceo scientifico Vincenzo Cuoco mentre termina il biennio degli studi superiori all’istituto artistico S. Apostoli. Si diploma, nel 2009, all’accademia partenopea di Belle arti, e proprio lì, in quelle aule, vince una borsa di studio per la Germania. Trascorre un anno alla “Weißensee Kunsthochschule” di Berlino. Ha partecipato al premio Terna 2009 ed esposto al museo Pan e al Madre di Napoli, a palazzo Reale di Milano e all’estero, a Shanghai, Toronto e Berlino. Attento indagatore della società, trasporta nei suoi lavori le complessità del nostro presente con chiavi e strumenti sempre nuovi.
DICONO DI LUI
Vincenzo De Bellis
«Giulio Delvè fa uso di diversi mezzi espressivi, sebbene prediliga una pratica di tipo scultoreo-installativa, con un approccio empirico e analitico che guarda al processo artistico come ad un mezzo per comprendere la realtà che lo circonda. Le sue opere partono da esperienze di vita quotidiana che egli studia, esamina, analizza e poi decontestualizza per mettere in luce e sottolineare gli aspetti folli e perversi del comportamento umano».
(dal catalogo della mostra Premio Ariane de Rothschild 2011. Alla scoperta dei giovani artisti italiani)
Stefania Palumbo
«Agire d’impulso non è sicuramente la caratteristica dell’operare artistico di Giulio Delvè, ma una componente istintiva, alle volte quasi violenta, vandalica, trasforma i suoi lavori in pause creative dal mondo reale. Sradicare pali dalla strada, sezionare cancelli divisori o spezzare centinaia di catenacci potrebbero apparire come gesti di un ultrà impazzito, ma nel processo creativo di Delvè assumono la forma dell'analisi fredda e distaccata di chi, con quel gesto, vuole semplicemente portare alla luce dei dettagli che altrimenti ci sfuggirebbero».
(testo inedito)