Gate 4 : Networking - Le citta' della gente


Promosso da Regione Toscana -TRA ART e dai Comuni di
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 Dal workshop di Stalker,Osservatorio nomade - ON/Livorno. Foto di A.Abati
 Dal workshop di Stalker,Osservatorio nomade - ON/Livorno. Foto di A.Abati
 Superflex, Supercopy/Self-Organizing. Foto di A.Abati
 Dal workshop di Bert Theis, OUT - Office for Urban Transformation. Foto di A.Abati
 Dal workshop di Carlos Garaicoa, Anatomia de la Ciudad. Foto di A.Abati
 Meschac Gaba, Transformation. Foto di A.Abati
 Dal workshop di Stalker, Osservatorio nomade - ON/Livorno. Foto di A.Abati
 La presentazione di Networking City
 
Per una geografia minore

Pratiche artistiche e spazi di democrazia

di Marco Scotini

'Come ogni cantiere a cielo aperto,
anche questo puo' venir scambiato
per un cumulo di rovine'.
Paolo Virno

Extra Territoria

'Come un ebreo ceco scrive in tedesco, o come un uzbeko scrive in russo. Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana. E, a tal fine, trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo.'[1] Il problema di una 'letteratura minore' cosi' come e' sollevato da Deleuze in Kafka si configura gia' come un insieme di strumenti utile per tracciare una possibile contro-geografia locale. In sostanza si tratta di strappare alla cartografia ufficiale una mappa sommersa, ancora informe e non ordinata, dentro e contro la griglia di luoghi esistente.
Allo stesso modo in cui una lingua deterritorializzata sta ad una letteratura minore, appartenere ad una simile sotto-geografia significa vivere in una terra che non e' mai stata la propria, in un luogo che gli insediati non conoscono ancora bene e da cui non sono riconosciuti, oppure vivere nella propria terra ma da stranieri, come uno zingaro o un nomade in patria.
E' una geografia 'di fatto', empirica e viva, che nessun atlante riporta perche' sfugge ai sistemi dei segni convenzionali e ai codici retorici acquisiti. E' un manoscritto steso ogni giorno dalle economie informali, dalle pratiche illegali, dai nuovi protagonismi sociali, dalla dislocazione delle culture, dalle dinamiche di trasformazione spontanea e auto-organizzata, dalle iniziative individuali, dalle minoranze senza voce. La citta' globale - come afferma Saskia Sassen - si inscrive in un paesaggio non omogeneo, in uno spazio contraddittorio, caratterizzato da disuguaglianze interne, da differenze tra risorse, profitti, settori che generano continui conflitti e tensioni. Si tratta di un processo flessibile, non regolamentato, in cui si cerca di trasformare lo spazio della mobilita' e della circolazione in uno spazio di vita e di affermazione di nuovi diritti, soggetti, cittadinanze.[2]
Questo campo di microcomunita' in espansione e di moltitudini in movimento si oppone infatti ad un'altra geografia, altrettanto nascosta e parallela, ma sottratta alla vista, in questo caso, dalle dinamiche del potere: quella delle reti dei dispositivi di controllo, delle relazioni tra sistemi finanziari, agenzie governative e banche, quella del capitalismo transnazionale. La difficolta', se non l'impossibilita', di una rappresentazione cartografica contemporanea, ma anche la centralita' di un discorso sulla geografia nel momento della sua stessa crisi, acquistano un vero e proprio carattere politico e sociale solo nel vuoto lasciato aperto dal nuovo ordine della mobilita' globale: dall'orizzonte mutato, cioe', che si e' venuto a formare nel mondo postcomunista e postcoloniale. Le pratiche artistiche, in questo nuovo scenario, molto piu' delle procedure statistiche e delle indagini analitiche, riescono a immaginare nuovi segni, a introdurre nuove capacita' di orientamento, a riscrivere le relazioni attuali tra soggetti, identita' e luoghi. Il primo passo e' rendere visibile cio' che e' poco visibile, opaco, o che non si vuole affatto riconoscere in quanto tale: cominciare a tracciare, entro la mappa globale, gli itinerari di una geografia minore.

Diaspore globali

Con 'sfere pubbliche diasporiche'[3] Arjun Appadurai indica quei mondi in movimento che sono l'indicatore specifico dell'attuale mutamento sociale. Tutt'altro che marginali o eccezionali, costituiscono il motore delle odierne politiche globali a partire dalla relazione tra mediazione e migrazione di massa. Quando immagini in movimento (comunicazione di massa, eventi mass-mediatici, media elettronici) incrociano spettatori deterritorializzati (immigrati, esiliati, profughi, lavoratori, rifugiati) si hanno nuove formazioni eterogenee o sodalizi sociali incoerenti che impongono di rideterminare la relazione costitutiva tra soggetti, politiche e luoghi. In questo quadro instabile e alterato, per Appadurai, gioca un ruolo radicale l'opera dell''immaginazione' che, sottratta allo spazio specifico dell'arte, entra a far parte tanto del quotidiano che delle vite collettive e si trasforma in uno spazio politico per l'azione. Ma soprattutto diviene una pratica dell'erosione o una forma di destituzione di quella sovrapposizione tra popolo, territorio e sovranita' che costituisce lo statuto del moderno stato nazionale. Le sfere pubbliche diasporiche si pongono cosi' come crogioli di un ordine politico transnazionale, decretando il declino stesso della 'sfera pubblica' che nella figura moderna dello Stato trovava, in qualche modo, il proprio significato: 'sfera pubblica borghese', appunto, secondo la definizione di Habermas.[4]
Eppure, nel momento di crisi radicale del concetto di 'pubblico' e della rappresentazione del 'politico' che su di esso si fondava; quando le forme di convivenza consolidate appaiono in declino quanto quelle di appartenenza di classe, di popolo e nazione; quando si assiste al trionfo dei molti e delle singolarita', niente - allo stesso tempo e paradossalmente - appare piu' pubblico di adesso. Ma come rappresentare i nuovi modi del 'pubblico' quando questi si sottraggono alle trame di stabilita' consuete per affermarsi nella contingenza immediata di formazioni temporanee e imprevedibili? Quando le pratiche delle nuove soggettivita' sembrano garantite solo nel 'qui e ora' del loro sempre rinnovato tempo di emersione, venendo meno a forme stabili di rappresentazione? E che ruolo assume la localita' nell'attuale schema dei flussi culturali globali? A quali condizioni e' possibile una cartografia delle dinamiche della mobilita'? Visto il ruolo che nello scenario ordinario viene ad assumere l'immaginazione, qual' e' allora il rapporto tra pratiche artistiche e nuovo protagonismo sociale?
Attorno a questa costellazione tematica il progetto di laboratorio territoriale 'Networking/Le citta' della gente' ha cercato di istituire il proprio spazio di ricerca, di azione e riflessione. Una piattaforma aperta, dinamica e performativa che, operando a scala sociale e territoriale su un lungo arco temporale, si e' proposta di mettere in scena le contraddizioni produttive dell'attuale statuto della rappresentazione urbana piu' che fornire risposte certe o formulare soluzioni concrete. Nella convinzione che l'arte possa giocare un ruolo di intervento privilegiato o possa contribuire a orientare i progetti sociali inediti del moderno globale.

Produzione artistica e Laboratorio Territoriale

Cento giorni, cinque artisti internazionali, settanta giovani artisti operanti nel territorio regionale, un grande fotografo, cinque citta' coinvolte, cinque amministrazioni comunali, il polo istituzionale regionale, una grande area industriale occupata, due dibattiti pubblici, urbanisti, pianificatori, sociologi, le popolazioni locali, varie associazioni. Ma un unico territorio: la Toscana. O, meglio, le maglie della sua rete meno evidenti, gli itinerari meno reclamizzati, le immagini, i luoghi e le storie socialmente emergenti.
Questo, in sintesi, 'Networking/Le citta' della gente', progetto territoriale a carattere interdisciplinare pensato come una piattaforma itinerante o un cantiere a cielo aperto, dislocato nello spazio e nel tempo, ma soprattutto e fondamentalmente come opera 'in atto'. Piuttosto che a parametri espositivi, per quanto elastici e flessibili, pensare ad un progetto artistico come 'opera in atto' significa attenersi ad uno spazio eterogeneo e ad un tempo non predeterminato. Significa concepire il modello della mostra come intervento in tempo reale, come un'impresa che coincide con il movimento effettivo del presente, un esercizio immanente che rinuncia ad ogni utopia come ad ogni ideologia (artistica in questo caso) per potersi direttamente mescolare ai 'fatti', agli eventi, alle cose: sans phrases, appunto.
La crisi radicale del rapporto tra territorio, soggettivita' e movimenti sociali e' ormai ampiamente visibile anche nelle nostre citta' storiche, apparentemente immobili, svuotate al loro interno ma corrose da equilibri sociali instabili o da conflitti reali e potenziali negli spazi vitali intermedi, nei margini, nelle aree di scarto, nelle frontiere. Ha cercato di partire da qui, dall'individuazione cioe' delle tracce di tale frattura e dalla loro ulteriore e possibile elaborazione, il progetto di laboratorio territoriale 'Le citta' della gente' concepito come network tra le citta' di Firenze, Livorno, Monsummano, Prato e Siena, tutte realta' pur tra loro diverse per tradizione, architettura e tessuto sociale. Campione privilegiato di storia, comunita' e cultura, ma soprattutto 'territorio culturale' per eccellenza, il paesaggio toscano si e' trasformato da febbraio a maggio 2003 nello scenario di fondo o nel tessuto connettivo entro le cui maglie alcuni artisti o gruppi artistici internazionali, tra i piu' attivi nel campo, sono stati chiamati ad intervenire secondo una precisa strategia operativa.
Ma cosa s'intende per 'laboratorio territoriale'? E quale rapporto esso e' capace di innescare tra pratiche artistiche e realta' sociale? Quale, infine, la sua capacita' di intervento o trasformazione entro i modi convenzionali di pensare l'arte e la sua presentazione?
Secondo l'interpretazione di Bruno Latour non possiamo piu' concepire un laboratorio come qualcosa di chiuso e circoscritto in cui fare esperimenti in vitro e con camice bianco, ma come un terreno espanso ed esteso temporalmente. Il laboratorio e' ormai diffuso ad ogni momento della vita quotidiana in cui tutti siamo sottoposti ad osservazione e ogni azione ha conseguenze impreviste nel contesto ambientale. Qualcosa che pero', mentre investe ogni aspetto del sociale, predispone ad una attivita' alternativa in presa diretta e ad una riappropriazione comune delle possibilita' d'azione. Con altri termini, la situazione e' quella altrettanto nota come condizione biopolitica.
Questo riconoscere la completa attualita' o l'immanente contingenza dell'esperienza attiva conduce ad una serie di performance operative, non programmate ne' finalizzate, come forma piu' attuale della ricerca artistica e dell'agire estetico.
In qualche modo la situazione odierna predispone anche ad una fuoriuscita dal display percettivo, museografico o espositivo, a favore dello spazio aperto e indeterminato dell''opera in atto'. In fondo la simultaneita' spaziale e temporale come garanzia dell'unita' narrativa offerta dalle quattro mura protettive della galleria ma anche da ogni altra possibilita' espositiva viene franta o messa radicalmente in discussione da una nuova complessita' e pluralita' reticolare che necessita di una programmazione in piu' tempi della presentazione del progetto, della diversa partecipazione del pubblico, della sua collaborazione a diverso titolo, di una vocazione permanentemente mobile o itinerante. Da questo punto di vista, la citta' sempre piu' viene concepita come 'medium transdisciplinare' e campo esperienziale per le pratiche artistiche. [5]
Per la maggior parte delle istituzioni culturali che si occupano di arte visiva e contemporanea il problema e', ora, capire come si possa prendere le distanze dal regime dominante dell'industria culturale, come far entrare in scena esigenze che non dipendono piu' ne' dalle richieste di mercato ne' da una committenza di tipo tradizionale. In questo senso le possibilita' di esperienza che 'Networking' ha aperto si sono confrontate con questo mutato rapporto tra forze produttive e modalita' di produzione, tra forme alternative di ricezione e necessita' di partecipazione. La convocazione del pubblico a piu' riprese lungo la durata di tre mesi, la presentazione di workplaces in azione, l'arena degli incontri e dei dibattiti, l'istituzione temporanea di piattaforme di produzione e consumo, gli attraversamenti urbani, la discesa comune nelle piazze, le manifestazioni di un giorno, le proiezioni pubbliche, il coinvolgimento della gente in pratiche non sempre legali, hanno segnato questo passaggio dai modi d'essere dell'esposizione alle condizioni tipiche dell''azione', non singolare ma collettiva.

Sfera pubblica moltitudine

E' come se una strana relazione, oltre l'apparente omogeneita' lessicale, riconducesse ad uno stesso destino contemporaneo rappresentanza e rappresentazione nel momento di una radicale trasformazione delle forme della vita associata e del 'mondo comune'.
Ma intanto, cosa s'intende per 'sfera pubblica'?
Per Hannah Arendt il termine 'pubblico' ha due significati che per quanto interconnessi non sono sovrapponibili.[6] Da un lato esso ha a che fare con 'pubblicita'' come cio' che appare in pubblico e che ha la piu' ampia visibilita' e il maggior ascolto possibile: e' l''opinione pubblica' di Habermas e la 'mediazione' di Appadurai. Dall'altro lato, per 'pubblico' s'intende un comune terreno d'incontro, distinto dallo spazio privato, che mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo. 'La sfera pubblica - scrive la Arendt - in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per cosi' dire, di caderci addosso a vicenda'. Ma tale mondo comune non e' automaticamente o 'naturalmente' garantito: e' continuamente minacciato dal 'privato' che puo' essere rappresentato da una societa' di massa (in cui tutti appaiono come membri di una stessa famiglia) o dalle condizioni di radicale isolamento che puo' derivare dalla dissolvenza di ogni forma d'appartenenza. In quest'ultimo caso Arendt cita l'esempio di una tirannia, ma per molti - tale condizione - potrebbe essere assimilata alla 'solitudine del cittadino globale'.
Al contrario, cio' che caratterizza la sfera pubblica attuale e' che essa non si definisce piu' in quanto tale, per contrapposizione ad una sfera privata o individuale, ma perche' tutto lo spazio sociale diviene in se stesso pubblico, per interna costituzione, senza bisogno di alcuna mediazione politica e culturale: sottraendo tutti gli elementi intermedi alle differenze.
In sostanza l'autorita' controlla i comportamenti dissolvendosi nell'insieme dei gruppi e dei saperi cosi' che la sfera privata, nelle sue funzioni vitali e ordinarie, si vede letteralmente attraversata e assorbita dalla socialita'.
L'intero fenomeno, noto sotto il nome di biopolitica, agisce come vero e proprio paradigma di potere all'interno del nuovo ordine globale. Introdotto da Foucault nell'individuazione del passaggio dalla societa' disciplinare alla societa' del controllo, il biopotere diviene un inedito 'dispositivo' - cioe' un orizzonte normativo interno - in grado di permeare i corpi e gli individui, organizzandoli nella totalita' delle loro attivita'. La capacita' della biopolitica di investire ogni aspetto della vita, agendo sulla sua stessa produzione e riproduzione, nasconde pero' il paradosso di un contropotere, che non si attacca piu' ai margini, ma agisce al suo centro.
Tale paradosso consiste nell'istituzione di una forma di capacita' d'azione che mentre ingloba ogni elemento del sociale, nello stesso momento svela un nuovo contesto caratterizzato dalla massima pluralita' e da un' 'incontenibile singolarizzazione': una nuova figura della vita associata che Paolo Virno ha definito 'continente-moltitudine'. [7] Non piu' popolo, ne' comunita', piuttosto una pluralita' che non converge piu' in unita', ma che neppure appartiene alla sfera del 'privato', come nel pensiero liberale. Anzi in quanto regione mediana tra individuale e collettivo, la moltitudine vive degli attuali processi di spaesamento e di sradicamento, trasformando il proprio destino di perpetua deriva in un progetto di resistenza e di opposizione. Una pluralita' che tuttavia 'non si sbarazza dell'Uno, ma lo ridetermina'.
Nomadismo, diserzione, esodo ne sono i nuovi paradigmi e l'unico terreno reale su cui immaginare le nuove comunita' all'interno di un progetto di cittadinanza globale non e' altro che quello alimentato quotidianamente dalla circolazione (legale e non) dei gruppi e degli individui. E' quello spazio conteso, interstiziale su cui la moltitudine esercita il proprio potere di determinare la nuova circolazione globale e la nuova ibridazione tra popoli, individui, razze, generi, saperi. Toni Negri lo ha definito 'esodo globale'. [8]

Postfordismo, arte e rappresentazione
C'e' chi ha detto: 'l'essere moltitudine sottrae cio' che era abituale: appartenere, rappresentare, rappresentarsi'.[9] Rappresentare, cioe' tradurre qualcosa (un'idea, una sensazione, un fenomeno) in qualcos'altro (in segni o insiemi di segni), portandolo a visibilita', presuppone sempre la relativa stabilita', la permanenza se non l'invarianza, di cio' che e' significato. Ma non solo: perche' anche il segno - la sua convenzionalita' o la sua assenza di opacita' - pretende la propria sedimentazione: inaugura sistemi d'identita', di ordinamento e di differenza. E' chiaro che nei grandi processi di trasformazione - quelli caratterizzati dal 'non piu'' e dal 'non ancora' - ci sono altrettanti smottamenti nei sistemi segnici, ma cio' che caratterizza la contemporaneita' e' proprio una permanente sottrazione alle condizioni stesse della rappresentabilita'. La realta' si mostra infatti nella duplice forma dell'unicita' imprevedibile del 'qui e ora' del soggetto, da un lato, della generalita' di categorie preindividuali e impersonali, comunque preliminari, dall'altro.
Mobilita', precarieta', mutevolezza e adattabilita' - gli attributi con cui oggi si presenta la realta' sociale - sono anche i tratti principali del modo di produzione postfordista o, meglio, di quella immediata coincidenza che si e' verificata tra sviluppo materiale e immateriale, e che, secondo Paolo Virno, ha dissolto i confini tra produzione intellettuale, azione politica e cultura. In sostanza il nuovo regime tracciato dal postfordismo assimila e riconosce entro i processi di produzione l'aspetto immateriale del lavoro. Se nel regime fordista l'intelletto restava fuori dalla produzione, nel postfordismo attuale, al contrario, 'lavoro e non-lavoro sviluppano una identica produttivita' basata sull'esercizio di generiche facolta' umane: linguaggio, memoria, socialita', inclinazioni etiche ed estetiche, capacita' di astrazione e di apprendimento'.
Credo che l'attuale scena artistica o, meglio, la sua parte piu' radicale emersa a meta' degli anni Novanta e giunta ora a piena maturita', non possa essere pensabile fuori di questo nuovo ordinamento sociale. Non e' in gioco alcuna trasformazione estetica (nessuna esthe'tique relationnelle, come e' stata chiamata)[10]; piuttosto la modalita' stessa con cui l'estetico e' pensato o il ruolo che ad esso viene attribuito entro l'insieme delle attivita' umane. Detto in altri termini, l'estetico appare sempre piu' come una funzione decentrata, generalizzata e sempre meno isolabile, stabilmente localizzabile o assegnabile ad un ambito prefissato, ad uno specifico campo di competenze.
Con 'agire estetico', in cui il termine agency e' tratto dalla sociologia americana post-strutturalista, si fa dunque riferimento ad un forte antideterminismo e soprattutto ad una volonta' di partecipare, direttamente e in tempo reale, alla trasformazione sociale. Non a caso cio' che caratterizza e accomuna le pratiche di molti artisti contemporanei, e' l'abbandono del tradizionale rapporto tra autore ed osservatore per insinuarsi entro le modalita' stesse del sistema di produzione: del lavoro, del valore, dello spazio, del mercato, della socialita'.
Le forme dell'autorganizzazione come figurano nei progetti del gruppo danese Superflex attraverso la proposta di servizi sociali; il riciclaggio del denaro o delle banconote fuori corso praticato da Meschac Gaba, le reti dei circoli del baratto che vengono allestite in differenti citta' dal Colectivo Cambalache sono un'incursione dell'arte in ambiti ritenuti alieni e in cui si cerca di contribuire a immaginare forme di scambio non monetarie, economie informali o parallele. Cosi' ancora l'attenzione alla citta' informale da parte di Marjetica Potrc o alla citta' nomade da parte di Maria Papadimitriou; la condizione dell'homelessness in Paola Di Bello, quella della 'rovina' in Carlos Garaicoa; la pratica dell'attraversamento dei vuoti urbani e delle periferie metropolitane condotte dal gruppo Stalker o la ricerca indiziaria come possibilita' di cartografare a partire dalle tracce lasciate dai nuovi comportamenti sociali di Multiplicity, sono tra le proposte piu' avanzate per cominciare a pensare la pluralita' urbana. Per non parlare delle identita' caleidoscopiche assunte da Gianni Motti, del suo effetto di proliferazione e di dispersione nelle reti mediatiche e a tutte le latitudini; della pratica comparativa tra molteplicita' linguistica e libero mercato in Rainer Ganahl; delle istanze di produzione e circolazione - infine - della comunicazione e dell'informazione di Raimond Chaves & Gilda Mantilla.
Se Nils Norman propone risorse per zone di autonomia nel paesaggio urbano, affiancandosi ai movimenti anarchici degli squatter e ai guerrilla gardners, il gruppo Park Fiction ostacola progetti di speculazione edilizia a favore di una pianificazione democratica e dal basso. Cosi' Isola Art Project a Milano (di cui fanno parte Bert Theis, Stefano Boccalini, il Gruppo A12) si unisce ad associazioni di quartiere, urbanisti e collettivi attivisti per preservare l'identita' locale. Minerva Cuevas si serve del web per fondare una compagnia di servizi no-profit 'Mejor Vida Corporation', mentre Andreja Kuluncic se ne serve come piattaforma aperta per dibattiti su giustizia, genetica e politica globale. Si avvicinano inoltre ai modi dell'insurrezione e della protesta politica, Anibal Lo'pez e il gruppo di Mosca Radek Community, con parate, barricate e scioperi della fame. Tutti artisti che praticano una sorta di performativismo assoluto, si riconoscono nel 'qui e ora' dell'azione e che assumono come referente storico ideale il retaggio situazionista, la 'plastica sociale' beuysiana, la critica radicale di Broodthaers, l'attivismo di Group Material, lo pseudo-sociologismo di Willats, il modello relazionale di He'lio Oiticica e Lygia Clark.
Questi artisti elaborano dunque una serie di strategie post-rappresentative, come le chiama Jens Hoffmann [11], i cui protagonisti non si limitano ad interagire con la realta' seguendo modalita' relazionali e rifiutandosi di continuare a far uso di metafore visive, testuali o percettive. Piu' che presentarsi come artisti individuali praticano strategie collaborative, piuttosto che produrre oggetti artistici formulano progetti, workshop e riservano al visibile uno spazio sempre piu' relativo.
Attraverso la proposta di modelli possibili, empirici e precari, addirittura performativi, questi artisti cercano di tessere le trame della sfera pubblica attuale. Pur partendo da luoghi specifici, da precise realta' territoriali, come nel caso della localita' di Avliza nei pressi di Atene per Maria Papadimitriou, del quartiere El Cartucho a Bogota per il Colectivo Cambalache, il quartiere St. Pauli ad Amburgo per il gruppo Park Fiction o delle campionature urbane di Multiplicity, non si riconosce tanto una condizione locale, quanto 'situazionale'. [12] Ancora una volta dunque ricompare la figura dell'esodo, dell'Ausgang, dell'uscita.
Tutti i temi e i concetti fin qui analizzati, gia' da molti anni figurano nel lavoro di molti artisti internazionali che hanno sviluppato un'attitudine di intervento nel sociale tra le maglie piu' nascoste delle politiche pubbliche, delle pratiche dal basso, dell'attivismo popolare, del nomadismo clandestino, degli insediamenti precari e temporanei. Ma a differenza delle precedenti generazioni, come quella degli anni Settanta, il rapporto con la sfera pubblica avviene nella totale assenza tanto delle politiche ufficiali che dalle sue consuete rappresentazioni: ormai lontano da ogni possibile forma di utopia.

Dalla Salaula al Mars Snack Bar

Con 'salaula' in Africa s'intende il mercato all'aperto degli abiti usati dell'Occidente. Il traffico dei vestiti di seconda mano che in questa 'pila di roba' prende forma non puo' essere letto solo come ennesima prova di subalternita' ai modelli occidentali, ma anche come possibilita' di riappropriarsi creativamente delle altre culture stravolgendone usi e costumi, nel tentativo di affermare la propria dignita' e il proprio desiderio di modernita'. La salaula diviene, in sostanza, un dispositivo privilegiato sull'idea d'identita' e apre al problema dell'interazione tra due o piu' culture.[13] Chi, come Meschac Gaba, da anni lavora sulla natura dell'appropriazione culturale e sulla decostruzione delle rappresentazioni dell'alterita' non poteva non ricorrere a tale modello, sociale ed economico allo stesso tempo, quasi fosse una speciale lente focale e un attivatore d'immagini, di desideri, di opportunita'. Tanto piu' in una capitale della moda come Firenze.
La richiesta di vestiti da bambino di seconda mano con annunci e inserzioni sui quotidiani locali e' stato il punto di partenza del laboratorio di Meschac Gaba che ha poi preso il nome di 'Transformation'. Allo stoccaggio temporaneo, infatti, non avrebbe dovuto far seguito un mercato dell'usato, piuttosto e' succeduta un'operazione collettiva di riciclo del materiale, in collaborazione con i quindici giovani artisti del laboratorio. Dagli abiti da bambino sono stati prodotti alcuni abiti maschili, altri femminili; alcuni vestiti di foggia africana, altri d'aspetto occidentale. Tutti pero' concepiti per un soggetto adulto e da cio' accomunati secondo una precisa categoria di sviluppo temporale: ciclico, appunto. Il fashion-show 'Transformation' ha concluso il progetto con una passerella nelle sale di palazzo Vivarelli-Colonna: una summer collection per sessantenni e l'afro beat di Fela Kuti sullo sfondo.
'Il bambino - si dice in Africa - e' il padre dell'uomo': con questa frase fatta di ironia e saggezza popolare Meschac Gaba ha cercato di legittimare la propria incursione tra differenti culture ed eta', tra desideri diversi e diverse pratiche di consumo, tra livelli ineguali di economia e potere. 'Transformation' e', in fondo, la possibilita' di riappropriarsi dell'azione, e' un tipo di astuzia del consumatore, una sorta di antidisciplina di chi si riconosce nelle pratiche d'adattamento, in quelle dell'appropriazione, nello spazio lasciato vuoto dal declino dell'appartenenza. Meschac Gaba, come immigrato del Benin, nega un'identita' primordiale della propria cultura d'origine cosi' come respinge e sottopone ad un'aspra critica la cultura del paese di destinazione e d'accoglienza. Non rimane allora che questo spazio interstiziale, trasformativo, appunto, quale campo per l'azione e l'immaginazione.
Ancora relativa al versante della produzione di beni e alle pratiche del consumo, 'Supercopy/Self-organizing', il laboratorio condotto da Superflex a Prato, si e' proposto come una variante dello stesso tema. Piu' direttamente implicato nella creazione di reti economiche alternative, generate dal basso, il progetto 'Supercopy' ha avuto quale obiettivo la riproduzione a scala locale di un prodotto del mercato globale. L'idea del progetto nasce dalla constatazione del grande numero di industrie tailandesi che si dedicano alla esecuzione di copie esatte di originali marche di produzione. Una volta messe nel mercato, tali imitazioni, consentono ad un pubblico con minore potere d'acquisto di assicurarsi comunque un prodotto che non e' l'originale ma di cui condividono il valore simbolico. La scommessa di Superflex, del loro progetto di democrazia radicale, e', da un lato, quello di incentivare la creazione di copie piu' desiderabili delle marche ufficiali e, dall'altro, promuovere processi di autorganizzazione. Una sorta di studio di 'fast design' ha preso luogo quindi a Prato attraverso la formazione di tre gruppi di lavoro che in quattro giorni avrebbero dovuto progettare e produrre in diretta copie piu' o meno alterate di generi di consumo come il 'mars' snack bar o il 'bacio' perugina e altri prodotti di utilita' global come un vocabolario multilingue. Operazione che poi si e' conclusa con distribuzione di beni e circolazione di denaro in un Open Market temporaneo, i cui flussi economici venivano registrati e resi visibili dall'azione 'bonus bar', dove - raggiunto di volta in volta un tetto economico - ad intermittenza veniva offerta birra gratis. L'intero workshop e' stato accompagnato da proiezioni di film/documentari sull'autorganizzazione (economica, sociale, politica) nel Primo e Terzo Mondo. Dunque, ancora una geografia minore del capitalismo contemporaneo.

Dalle rovine agli spazi vuoti

'Inseln der Unordnung' chiamava Heiner Müller all'inizio degli anni ottanta le isole di sottosviluppo, le isole di Terzo Mondo, gli spazi vuoti della citta' occidentale che vedeva ormai come gli unici 'spazi di liberta'' lasciati fuori dall'egemonia del piano, dal progetto.[14] Il carattere informale delle economie che vi si praticano, i rifugi temporanei che consentono, le pratiche di sopravvivenza e di continua appropriazione che vi si esercitano, oggi pero' sono diventate per molti un vero e proprio modello insediativo.
In questo senso, i caratteri piu' specifici con cui si manifesta la produzione dello spazio sono stati l'oggetto di ricerca, analisi e proposta di alcuni interventi condotti all'interno di 'Networking' dal gruppo Stalker, da Carlos Garaicoa e da Bert Theis. Le strategie messe in campo in questa occasione sono state anche tema di dibattito in due incontri pubblici, chiamati 'Town Meeting', in cui la visione di un'urbanistica parallela e dal basso e' stata discussa anche con specialisti della disciplina, sociologi e altri gruppi artistici come Park Fiction di Amburgo. [15]
Senza riassumere troppo lo sviluppo individuale di ciascuno dei tre workshop, potremmo far ricorso allo schema generale di attivita' spaziali tracciato da Henri Lefebvre in rapporto a tre diversi livelli di pertinenza. Secondo questa griglia alle attivita' spaziali materiali corrispondono i flussi fisici e sociali, alle rappresentazioni dello spazio invece i segni e i codici con cui traduciamo tali attivita' in descrizioni, agli spazi di rappresentazione, infine, attivita' simboliche, metafore o cio' che noi indichiamo come 'luoghi'. All'interno di 'Networking' e' come se i laboratori condotti da Bert Theis, Stalker e Carlos Garaicoa avessero gravitato ciascuno attorno ad uno specifico livello, pur partendo dal fatto che tali piani sono tra loro interdipendenti e che assomigliano piu' ad un palinsesto che ad una successione di strati. In sostanza pero' l'ufficio per la trasformazione urbana (OUT) di Bert Theis per Piazza Giusti a Monsummano si e' confrontato con l'analisi della situazione attuale e con successive proposte d'intervento, l'osservatorio nomade (O/N) degli Stalker si e' proposto di lasciare affiorare le tracce di un'altra Livorno, mentre il laboratorio di Carlos Garaicoa ha tentato di leggere l'architettura chiusa, a carapace, dell'antico mercato del pesce di Siena come un 'racconto in attesa'. Dunque: l'esperito, il percepito, l'immaginato di Lefebvre.[16] Tre precise modalita' d'intervento che partono tuttavia da una piattaforma comune. Da un lato, la condivisione di un'accettazione integrale del corpo fisico della citta', senza necessita' di aggiungere altro a quello che gia' c'e', proponendosi pero' come pratiche di riappropriazione e di uscita: 'skateboard philosophy' secondo la definizione di Park Fiction. Dall'altro lato, alla domanda che ora si pone: cosa c'e' nella citta'? si risponde pero' con una sorta di inconscio sociale, di archeologia freudiana di ritorno del rimosso, con le politiche del desiderio di matrice deleuziana. Ecco allora i 'vuoti di memoria' come topografia proposta dagli Stalker dopo aver visitato i cantieri del Palazzo del Vetro, del Corallo, dell'ex-Spica, dei magazzini del porto. Oppure dopo aver attraversato, con due barche prese clandestinamente, i Fossi di Livorno. Oppure l'idea di Garaicoa di un'architettura come perenne frammento, come rovina dell'utopia: qualcosa del passato che e' crollato o qualcosa che non e' mai stato condotto a termine. Sempre uno scarto, un racconto ripiegato tra la Storia e il Futuro. Ma c'e' ancora dell'altro di comune dietro questo esercizio anarchico nello spazio, dietro il ritorno di queste 'pratiche podistiche' (come le chiama de Certeau [17]), dietro questo esilio o questa definitiva 'uscita' (exit e non voice, per usare i termini di Hirschman [18]) dal progetto. Come ha scritto La Cecla per Stalker: 'Sia che essi percorrano a piedi il contorno di una citta', con l'intento pasoliniano di dare risalto al lasciato fuori, sia che dormano in spazi abbandonati o che lavorino con una comunita' zingara o kurda alla ricostruzione di luoghi di accoglienza in strutture abbandonate, sia che a Miami distribuiscano caffe' sul ponte che separa la parte ispanica da quella nera, sia che distribuiscano acqua a Pristina in bottiglie in cui si da' l'allarme per le condizioni igieniche della citta', il loro lavoro da' sempre la precedenza al contesto e al momento, al qui e all'ora delle pratiche degli insediati'. [19] Ma non solo di essi: la presa sul reale e' ancora piu' diretta e, come e' accaduto per il workshop a Livorno, si registra 'in atto' lo scoppio della guerra in Irak. Il bombardamento di Baghdad e la distribuzione del piatto di pesce locale, il caciucco.
Ecco allora che il 'vuoto' con cui queste pratiche artistiche si misurano e' qualcosa di diverso e di radicalmente nuovo. Non e' il no future di un tempo consumato, ne' lo spazio liscio e promettente, la tabula rasa dell'utopia. E' un vuoto praticato, attraversato, che non si organizza piu' intorno all'illusione di una promessa. Non trae il suo senso dal futuro, da programmi d'intervento, ma dal presente, dalla contingenza del 'qui e ora' immediato. E' cio' che oppone resistenza all'essere ridotto ad un unico modello di pensiero, di azione e di organizzazione. Il vuoto e' qui rinuncia, abbandono, mobilita', un 'essere tra'.
E' piuttosto un'aspirazione comune a darsi ormai 'senza rappresentanza, ne' rappresentazione'.

Note
[1] Gilles Deleuze, Fe'lix Guattari, Kafka. Pour une litterature mineure, Les Editions de Minuit, Paris 1975 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1975).
[2] Irit Rogoff, Terra Infirma. Geography's visual culture, Routledge, London and New York 2000; Saskia Sassen, Globalization and its Discontents, 1998 (trad. it. Il Saggiatore, Milano 2002); David Harvey, The Urban Experience, 1989 (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1998)
[3] Arjun Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimension of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1996 (trad. it. Meltemi, Roma 2001)
[4]Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1962 (trad. it. Laterza, Bari-Roma 1971)
[5] Vedi in proposito le ricerche sulle attuali pratiche curatoriali di Catherine David e di Hans-Ulrich Obrist. Cfr. anche Gavin Wade (a cura di), Curating in the 21st Century, The New Art Gallery Walsall, U.K. 2000
[6] Hannah Arendt, The Uman Condition, The University of Chicago, 1958 (trad. it. Bompiani, Milano 1988)
[7] Paolo Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 2002. Per i rapporti tra questa teoria e le pratiche artistiche contemporanee, vedi, Esodo, Unicita' e Moltitudine. Intervista di Marco Scotini a Paolo Virno in 'Going Public. Soggetti, politiche e luoghi', Silvana Editoriale, Milano 2003, pp. 58-71.
[8] Michael Hardt/Antonio Negri, Empire, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2000 (Trad. it., Rizzoli, Milano 2001).
[9] Aldo Bonomi, Il trionfo della moltitudine, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
[10] Nicolas Bourriaud, Esthe'tique relationnelle, Les presses du re'el, Paris 2001. [11] Jens Hoffmann, Take Me (I'm Everyone's), in Anton Vidokle, Here There, Elsewhere..., Krabbesholm Books, Skive 2003.
[12] Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo, DeriveApprodi, Roma 2003.
[13] Karen Tranberg Hansen, Salaula: the Worl of Second hand Clothing and Zambia, University of Chicago Press 2000.
[14] Vedi l'intervista ad Heiner Müller di Sylvere Lotringer, Credo nel conflitto, in nient'altro, in H. Müller, Tutti gli errori, Ubulibri, Milano 1994.
[15] Il nome 'Town Meeting' e' stato preso dalla serie di dibattiti pubblici promossi da Group Material nel 1989, all'interno del progetto 'Democracy'. Ma a sua volta il termine era tratto da Ralph Waldo Emerson. Vedi Brian Wallis (a cura di), Democracy. A project by Group Material, Dia Art Foundation, USA 1990.
[16] Henri Lefebvre, Espace et Politique. Le droit a' la ville II, Editions Anthropos, Paris 1972 (trad.it., Moizzi Editore, Milano 1976); Henri Lefebvre, La Production de l'espace, Paris 1974.
[17] Michel de Certeau, L'invention du quotidien. I Arts de faire, Gallimard, Paris 1990 (trad. it., Edizioni Lavoro, Roma 2001).
[18] Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty, Harvard College Press, 1970 (trad. it., Bompiani, Milano 1982)
[19] Franco La Cecla, Perdersi. L'uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 1988-2000.

INCROCI
articoli pubblicati nel Network UnDo.Net:

Audio intervista a Marco Scotini, 21/1/2003 ''Networking vuole essere un laboratorio territoriale collegato ad un contesto globale, internazionale, rappresentato dai 5 artisti che terranno i workshop...''

Iniziative di confronto

TO-present 2003 6,7,8,9 novembre: ogni giorno online immagini dalle mostre torinesi e commenti audio a critici e artisti

Synapser 2002 Tessitore di connessioni

Molteplicitta' 1999 Rappresentazioni, percorsi e visioni della citta' contemporanea nelle opere dei giovani artisti e autori italiani. A cura di Bartolomeo Pietromarchi

Public art in Italia, 1999 A cura di Alessandra Pioselli

Subway 1999 Arte egli spazi della metropolitana, delle stazioni e del passante ferroviario

Survival, ovvero la giungla sotto casa 1999 Emanuela De Cecco testo per il progetto di Enzo Umbaca

Generazione immagini III. Arte e citta' Public Art - 1996/97 A cura di Roberto Pinto

Generazione immagini III. Arte e citta' Public Art - 1996/97 Interventi di vari autori italiani

Territorio Italiano 1996 A cura di Giacinto di Pietrantonio

Altre risorse e articoli

Emanuela De Cecco Operazione a cuore aperto: articolo in Juliet n. 105 dic 2001/gen 2002

Franco Bianchini I risultati delle politiche culturali degli anni '80 e la situazione attuale

Paola Ferraris Dall'arte di stato all'arte pubblica: articolo in Juliet n. 90 dicembre '98

Hans Ulrich Obrist Une ville peut en cacher une autre

Maggie Bolt How artists should be involved to achieve quality public art practice

Hans Ulrich Obrist Conferenza tenuta presso la Fondazione Antonio Ratti, Como 1996

Nicholas Bourriaud Conferenza tenuta presso la Fondazione Antonio Ratti, Como 1995

Informazioni su eventi affini

Citta'zioni Un caso di Public art a Milano

Cittadinanza attiva Pratiche sociali e la costruzione della citta' pubblica

Quotidiano sostenibile Scenari di vita urbana

Going Public Poetiche e politiche della mobilita'

Ad'a-Area d'Azione Progetti di arte pubblica alla Rocca Sforzesca di Imola

Stazione Utopia A cura di Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist e Rirkrit Tiravanija. 50a Biennale di Venezia

Sistemi individuali A cura di Igor Zabel. 50a Biennale di Venezia

Riserva Artificiale Progetto artistico collaborativo. Nell'ambito dei progetti Links 50 Biennale di Venezia

2003 Arte al Centro di una trasformazione sociale responsabile. Rassegna annuale di Cittadellarte

Salon des Refusees Cosa e possibile e cosa no nella public art? A cura di Roberto Pinto

Storie di citta' Nell'ambito del workshop curato da Roberto Pinto si svolgeranno incontri pubblici con alcuni operatori di settore

USE. Uncertain States of Europe Dentro la Citta' Europa, nell'ambito della XX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano 'La memoria ed il futuro'

LabOratorio 2/Proposte XVI Un'indagine sulla ridefinizione dei confini fra spazio pubblico e spazio privato. A cura di a.titolo

Multiplicity Una collezione di luoghi. 41 letture della vita urbana contemporanea. A cura di Stefano Boeri e Fabrizio Gallanti

 
CONFRONTI

Networking City
Artisti partecipanti alla mostra

Meschac Gaba
Transformation - Workshop

Meschac Gaba
English version

Gianni Caverni
Intervista a Meschac Gaba


Superflex
Supercopy/Self-Organizing - Workshop


Superflex
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Lorenza Pignatti
Intervista a Superflex

Stalker
Osservatorio nomade - ON/Livorno - Workshop

Stalker
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Manifesto di Stalker
Dal sito web di Stalker

Bert Theis
OUT - Office for Urban Transformation - Workshop

Bert Theis
English version

Marco Scotini
Intervista a Bert Theis

Carlos Garaicoa
Anatomia de la Ciudad - Workshop

Carlos Garaicoa
English version

Marco Scotini
Intervista a Carlos Garaicoa