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 Carlos Garaicoa. Foto di Andrea Abati
 
Intervista a Carlos Garaicoa

Marco Scotini

Spazio pubblico, cartografie private e potere

Marco Scotini: Tutti conosciamo i tuoi fanta-progetti di restauro, le tue foto delle rovine de L'Avana, le tue citta' domestiche, citta'-collezione. Partirei dunque da una affermazione che emerge dallo sfondo del tuo progetto di laboratorio per Siena. Qui, dove definisci la citta' come 'il Paradiso della Rappresentazione'.

Carlos Garaicoa: All'inizio il mio lavoro non riguardava l'idea di citta'. Non era tanto sullo spazio urbano, ma era uno studio sul linguaggio, sulla rappresentazione e sulla comunicazione. Dopo il mio primo anno di accademia mi sono trovato impegnato in questa sfida con il linguaggio che e' il punto fondamentale da dove parte tutta la mia relazione con l'arte. Solo alla fine c'e' questa domanda, molto contemporanea, di come rappresentare lo spazio.
Fondamentalmente io sono un pittore e ho trovato la citta' quasi per caso. Trovavo che la fotografia o l'idea del documento fosse un processo piu' immediato, piu' efficace e diretto per comunicare, pensando come parlare ad un pubblico che non fosse il pubblico dell'arte. La citta' era dunque uno spazio ricchissimo che mi poteva fornire l'opportunita' di fare fotografia, disegno, scrittura e scultura perche' tutto stava la', al suo interno, ma allo stesso tempo proprio lo spazio urbano mi permetteva di uscire dalla tradizione dell'arte.

M. S.: Pero' la citta' non e' mai per te uno sfondo generico o totalizzante: anzi la citta' e' colta in una sua parte o, meglio, nella frazione di una sua parte possibile. Mi riferisco all'idea del frammento, ma soprattutto a quella della 'rovina'.

C. G.: Mi interessava l'idea dell'oggetto marginale, dei numeri immaginari sui muri, dei graffiti. In sostanza, l'idea del frammento 'senza storia'. Il soggetto all'inizio era la rovina e cioe' come incontrare uno spazio urbano vuoto di significato, dimenticato, che fosse possibile nuovamente riempire di senso, reinventando una storia che non c'era piu'. Per questa ragione sono sempre andato alla ricerca di un luogo senza nessuna relazione storica anche se L'Avana, in questo spazio della rovina, e' un luogo con una storia, anzi pieno di storia.
Se oggi L'Avana e' diventata un punto di riferimento per l'architettura, prima non era cosi'.
Prima era uno spazio piu' intimo e non avrei mai pensato di trovare tanti libri di fotografia di autori americani e canadesi che venivano all'Avana per ritrarre questa citta' decadente pero' bella. Io al contrario pensavo di lavorare sopra una specie di analisi della storia, della politica e trovavo questo senso intimo e questa relazione interna che si e' poi totalmente perduta tra il processo della fotografia e l'occhio straniero, non indottrinato e che non puo' vedere la verita'. Allora ho pensato di uscire fuori da questo percorso.

M. S.: C'e' chi ha detto: come Parigi ha il suo Euge'ne Atget, Praga il suo Josef Sudek, L'Avana ha il suo Carlos Garaicoa. Ma L'Avana per te e' sempre anche metafora della 'citta' globale'.

C. G.: E' un fenomeno storico che acquista senso tra il percorso della mia opera, la situazione di Cuba (che e' una situazione specifica), noi - in quanto artisti cubani - e la scena internazionale. La mia domanda pero' era come lasciare questa 'cubanita'', questa identita' precisa che non ci identifica. Io non mi sento identificato con Fidel Castro pero' non puoi non far parte di questo fenomeno. Allo stesso tempo anche il mio lavoro si e' sviluppato a contatto del mondo cubano e della contemporaneita' globale. Il mio lavoro dopo il '93 e' uscito per la prima volta da Cuba, poi si e' confrontato col mondo occidentale in cui siamo passati, per esempio, dal momento del fax al momento dell'internet e dell'e-mail con questa rapidita' che ci ha caratterizzato negli ultimi dieci anni. Hai visto: anche il mio lavoro prima era un lavoro un po' intimo su una citta' specifica, in seguito questa citta' e' diventata ai miei occhi una metafora politica, a partire dal crollo del muro di Berlino che ha permesso di riaprire la storia, mentre il socialismo si stava reinventando. Adesso questo fenomeno e' finito e il mio lavoro si e' sviluppato tra un contesto locale e questa grande domanda dell'occidente. E' stata una grande sfida per tanti giovani artisti di Cuba: qualcuno ha fatto un'opera differente come Los Carpinteros; altri piu' vicina alla mia, come Kcho e Tania Bruguera.

M. S.: Ma solo Cuba, forse piu' di Berlino, poteva diventare la metafora per eccellenza della rovina: l'isola dell'Utopia. C'e' un tuo lavoro 'Ni Cristo, ni Marx, ni Bakounin' che mi pare riassumere bene questa condizione. E' uno slogan che hai trovato nelle strade de L'Avana?

C.G.: No, a Valencia, in Spagna. Questo e' un punto di riflessione per tanti artisti nella scena internazionale contemporanea. Nonostante il sistema dell'arte fa una forte pressione su come ubicarti, per me si tratta di come eliminare questa traccia, questa realta' specifica. Quando ho fatto 'Ni Cristo, ni Marx, ni Bakounin' potevo parlare de L'Avana ma anche di una sorta di fede internazionale di questa gioventu', di questa nuova generazione 'senza dei'. Cio' mi interessa molto perche', come ti dicevo, l'evoluzione del mondo contemporaneo riguarda tutti ed io sono una persona sempre in viaggio e mi sento ormai quasi 'senza appartenenza'. L'idea del viaggio appartiene, comunque, all'artista contemporaneo che e' un po' gitano, un po' palestinese, errante da un punto all'altro alla ricerca della terra promessa. Ma si tratta anche di un fenomeno strettamente legato all'opera stessa perche' dopo dieci anni ho trovato nuovamente L'Avana. Dopo le citta' di candele, quelle di cristalli, le citta' fatte di fili, le citta' di nessuno, le citta' fatte un po' di disegno, un po' di riflessione e un po' di immaginazione, nell'opera di Documenta ho cercato di fare un lavoro piu' politico, andando nuovamente a trovare un frammento di storia: pero' con tutta l'esperienza del lavoro accumulato. Un vero e proprio re-incontro con questa citta'.

M.S.: Qui mi pare che l'aspetto che emerge sia quello piu' legato all'utopia, come progetto sociale, come futuro.

C.G.: Penso che la mia opera e' diventata piu' politica dopo 'En las hierbas del verano', un'opera che ho fatto in Africa, in Angola, e dopo questa opera che ho presentato a Documenta sull'architettura del socialismo a Cuba. Pero' sempre cercando di lavorare all'interno di un discorso capace di apportare un po' piu' di qualsiasi discorso politico. Noi artisti non siamo politici proprio per questo: perche' apriamo il discorso e non lo chiudiamo in un fenomeno specifico. Questo progetto e' un'opera forte, super politica, pero' cerca anche una certa perfezione dal punto di vista della rappresentazione, come scultura, come letteratura, come invenzione dello spazio.
Gli edifici di 'Continuidad de una arquitectura ajena' presentano ora un nuovo problema, perche' questi progetti non sono stati completamente realizzati a causa del collasso del progetto socialista. E questo lo si puo' trovare in tutti i paesi ex socialisti, nella Germania come in Russia. Ma edifici non terminati si possono incontrare ovunque. Anche il mio progetto per Documenta non riguardava solo Cuba, ma anche il Venezuela (quell'architettura anni '50 che si incontrava con una nuova situazione economica, politica, sociale) e l'Angola come risultato dell'importazione del progetto socialista in Africa. Ma quello che m'interessa e' come l'architettura si proietti in qualcosa che poi non si realizzera' mai.

M. S.: Qui entra in scena quella che tu chiami 'rovina del futuro': qualcosa che non e' stato distrutto dalla storia ma che la storia ha impedito di portare a compimento. Il progetto non finito.

C. G.: In 'Continuidad de una arquitectura ajena' ci sono gli ultimi quindici anni dell'architettura cubana, a partire dalla caduta del muro di Berlino. Ho fatto dei progetti sopra quelle piante, senza cambiare niente. Questa idea di non violentare la storia, di non violentare lo spazio ma di seguirne la traccia stessa, in maniera perfettamente identica, crea una specie di appropriazione un po' religiosa, un po' magica. La storia e' sempre in cammino, e' come l'immaginazione e puoi anche trasformarla: e' un po' il mio punto di vista in cui si incontrano Borges e molti altri autori. E' possibile avere il documento e la comunicazione precisa su di esso, ma anche creare tra loro uno scarto, una invenzione, una fiction.
E tutto il mio lavoro parla di questo e cioe' di come l'immaginazione proietta la verita', una verita' piu' forte, una storia piu' interessante. Comunque 'Continuidad de una arquitectura ajena' vale quanto un discorso politico preciso, perche' e' un momento di storia cubana che si riferisce ad ora e a questa idea dell'utopia di cui parliamo tanto.

M.S.: Quello che tu chiami documento e' sempre uno scarto, un frammento minimo, una irriducibile testimonianza di vissuto, di privato. Il 'c'e' stato', a' la Barthes. Per questo e' importante per te la fotografia?

C. G.: La fotografia e' sempre un documento parziale. Io mi immagino costantemente se fosse possibile vivere in un paese, in una societa', in un mondo in cui ognuno di noi potesse portare il proprio documento personale. Pensa che bellezza sarebbe questa possibilita' multipla di immaginare lo spazio e quello che ne risulterebbe, dopo 40 anni, sarebbe incredibile. Pensa se tutti quanti potessimo far questo. E' cio' di cui ho parlato a Siena. Che cosa puoi trovare in un piccolo spazio? Che cos'e' lo spazio pubblico? Qual'e' lo spazio della storia cubana? Lo spazio pubblico e' un oggetto comunicativo, e' il luogo della comunicazione, della comprensione, non dell'imposizione e del potere. Anche a Cuba il socialismo doveva essere una rivoluzione popolare, una rivoluzione della parola....

M. S.: Nonostante la tua posizione sia sufficientemente chiara e sufficientemente eretica: qual e' la tua idea di 'Public Art'?

C.G.: La mia prima esperienza sullo spazio pubblico e' del '90 - '91 in una citta' che necessitava di questa comunicazione, di una parola che non fosse quella del potere ma che tornasse ad avere un vero potere. Quando facciamo un'opera a Münster o a Sonsbeek o a Kassel abbiamo a disposizione la citta' e possiamo trovare tanti posti per realizzarla. Ma questo e' un controsenso. Un peccato d'origine dell'arte pubblica. La necessita' di trovare lo spazio urbano per fare arte spetta alle avanguardie storiche e dopo si sviluppa negli anni sessanta e settanta come un'alternativa alla struttura chiusa del museo e della galleria. Si ha una traslazione di questa istituzione allo spazio urbano. Adesso e' diverso e 'Networking' e' un esempio perfetto: e' una sorta di discorso anarchico intorno all'idea di citta'. Che significa?
Si tratta di un nuovo modo di sentire per cui noi artisti stiamo cercando di attivare un certo tipo di discorso in cui lo spazio pubblico diviene privato, si soggettivizza. Non fai una imposizione sopra niente ma crei le condizioni per una relazione pubblica. Si usano le strutture dell'arte pubblica per rendere lo spazio di tutti uno spazio piu' intimo, individuale.

M. S.: Mi viene in mente il lavoro di un'artista che stimo molto e che pone come oggetto della propria ricerca sullo spazio pubblico quelle che lei chiama 'iniziative individuali'. Gli esempi di Marjetica Potrc sono i barrios di Caracas, i suburbi di Johannesburg, le facciate illegali di Hong Kong dove la continua appropriazione individuale consente un controllo reciproco dello spazio sociale.

C. G.: Lo spazio pubblico e' una grande alternativa ma, nel momento in cui rischia di diventare parte dell'istituzione, dobbiamo anarchicamente uscir fuori di scena. E' necessario comprendere questa contraddizione dello spazio pubblico tra politica e visualita' perche' si aliena nuovamente dello stesso discorso di cui ci siamo serviti per liberarlo. Qui a Siena abbiamo trovato questo 'tartarugone' dell'ex-mercato del pesce, lo abbiamo frequentato con questa liberta' primaria del desiderio e dell'immaginazione ma non abbiamo realizzato niente. Io arrivo in un posto dove nessuno sa che sono un artista e che quello a cui sto lavorando e' arte. E' una sorta di appropriazione privata. Anche gli Stalker, i Superflex sentono la necessita' di questo tipo di liberta', di cercare questo spazio che e' precluso all'istituzione. Uno spazio che ha bisogno di un nuovo tipo di artista integrale, di relazioni piu' complesse con la sociologia, l'urbanistica, il linguaggio, la comunicazione. Senza dubbio questo e' il nuovo museo.

M. S.: Il rapporto tra pratica urbana e pratica artistica si trasforma in una similitudine di tipo strutturale. E' per questo che il tuo progetto senese porta il nome di 'Laboratorio per la resistenza artistica'?

C. G.: Io vengo da un paese che viene violentato costantemente con l'idea del potere, con una vera e propria repressione del pensiero. Ma trovo che il linguaggio dell'arte e' comunque una sorta di resistenza a questa struttura. Anche l'idea dell'arte pubblica come accademia fa riferimento ad uno spazio istituzionale dal quale e' necessario scappare attraverso forme di resistenza e di opposizione.

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