Rettangoli di prato

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Indice :

1 La sfida!

2 L'omino che trasporta il rettangolo bianco

3 Lulu/Valentina studentessa in Giappone

4 La maschera

5 Senza titolo (non voglio "soccombere" alla tentazione di usare la frase presente nell'immagine come titolo)

6 La vestizione dei sub-eroi sotto gli occhi delle donne

7 A passeggio nel parco?

8 Dall'alba al tramonto

9 La donna del mistero

10 Il potere del taglio

11 Rifrazioni

12 Le latenze del bianco

13 Il cuore sospeso nell'ombra

14 Da lì qualcuno ci guarda

15 Con titolo

16 Il cielo è azzurro dappertutto!

17 Teatro e pittura, digitale

18 Oldernet

19 Ciò che l'immagine non dice

20 Un lago in "attesa"

21 L'incidente

22 Body-Landscape Art

23 La paura ha un volto (o una maschera)

24 POP-UP

25 Maschere

26 La famiglia

27 Figli dell'iperrealismo

28 Capitani coraggiosi

29 Rettangoli di prato

30 I luoghi della varietà o discorso sul kitsch

31 Fotodinamismi

32 Supponiamo che sia vero, dopo tutto? E allora?

33 L'ambiguità del confine

34 Diruptio






Qualche hanno fa ho organizzato la mostra di un’artista che utilizzava come base di partenza per i propri collages alcune fotografie di rettangoli d’erba. Si trattava di porzioni di prato che aveva ritratto in diversi parchi di grandi città europee. Le fotografie erano poi smembrate in tante piccole tessere di puzzle, che l’artista poi mischiava tutte insieme e assemblava in modo apparentemente disordinato su pannelli quadrati di forex bianco. (L’immagine del lavoro conclusivo - un tracciato ramificato su un fondo bianco - ricordava la visione di quei paesaggi montani, nei primi giorni di primavera, quando le nevi si sciolgono lungo il corso dei fiumi, lasciando intravedere i paesaggi verdi sottostanti, visibili solo dall’aereo, cioè il mezzo che l’artista utilizzava per spostarsi da una città all’altra d’Europa).

Ciò che mi colpiva di quel lavoro era il fatto che l’opera finale conteneva una serie di passaggi successivi di cui le fotografie di prato erano solo una piccola parte: il viaggio, la scelta dei luoghi, il punto di vista, la fotografia, la scomposizione in puzzle, la scelta della texture, il disegno del tracciato, l'applicazione su forex, ecc. Le fotografie stesse contenevano i passaggi precedenti ed in un certo senso ne erano la "sintesi"; quei rettangoli di prato erano in sostanza già delle opere finite, prima ancora che fossero utilizzati come base per altre opere.

Accostando rettangoli di prato di diversa provenienza si potevano notare molte differenze messe in luce da una identica inquadratura (stessa altezza, stessa proporzione dei lati): le gradazioni di verde, la composizione delle foglie di cui era composta l'erba, la lunghezza dei filamenti, la loro densità ecc. Per quell'artista, tuttavia, fotografare prati aveva una funzione strumentale, era un passaggio necessario, per poi andare oltre quel semplice ritratto erboso, che da solo sembrava non essere sufficientemente espressivo, nonostante raccontasse di un viaggio, della presenza in un luogo specifico, di una manifestazione della natura ad una determinata latitudine, ecc.

In effetti ci sarebbe da chiedersi se per chiunque, come per quell'artista, il semplice ritratto di un prato, considerato in maniera assoluta, risulti espressivo o anche soltanto interessante.

Ci si potrebbe chiedere che cosa racconti un quadrato di prato - come in questa nostra immagine - senza ulteriori elementi significanti, come ad esempio la descrizione di un luogo o di una circostanza.

E’ fuor di dubbio che una porzione di prato, che sia reale (come una zolla regolare) o rappresentata, manifesti una particolare relazione tra naturale ed artificiale. Un prato è indubbiamente un elemento naturale o almeno è composto di elementi naturali; tuttavia la superficie erbosa per essere “prato” ha bisogno di una particolare cura: la selezione di determinate foglie, la rasatura, eventuale rizollatura, ecc. Il prato è in sostanza la massima espressione della natura “antropizzata”; poiché se anche una pianta, un arbusto o un albero possono essere piantati e potati secondo la volontà umana, vi saranno sempre aspetti visibili di questi che non possono essere controllati dall’uomo. Il prato, invece, può essere controllato in ogni dettaglio, a tal punto che molti celebri architetti hanno utilizzato ed utilizzato la superficie erbosa come rivestimento di edifici: trasformando così l’elemento naturale in elemento architettonico.

Il manto erboso di un prato, però, considerato in assoluto, costituisce una superficie indifferenziata - come può essere ad esempio una tela bianca – nonostante la grande varietà di qualità, colore ed aspetto che può avere. Sono gli elementi di contorno, che lo delimitano, o quelli che contiene a poterlo caratterizzare e potergli dare una specifica connotazione.

Vorrei tuttavia approfondire l’argomento facendo riferimento a due artisti che possono gettar luce su questo argomento.

Per quanto riguarda la natura indifferenziata del manto erboso, un interessante esempio ci viene dal lavoro di Piero Gilardi. Questo artista fin dal 1965 è diventato celebre per i suoi “Tappeti natura”; si tratta di riproduzioni iperrealiste di porzioni quadrangolari di superfici naturali, realizzate in poliuretano espanso. Che io sappia non esistono tra i suoi “tappeti” lavori che rappresentino soltanto un manto erboso indifferenziato. Tronchi, pietre, fiori, frutti, ecc. sono sempre parte integrante di queste opere che senza questi elementi caratterizzanti, pur imitando perfettamente una superficie naturale, non sarebbero percepiti come “natura”.

Nel 1959 lo scultore americano Carl Andre compì una svolta fondamentale nel suo lavoro, decidendo di smettere di scolpire e rivoluzionando così il concetto stesso di scultura. L’artista respinse l’idea di dover modellare, aggiungendo o togliendo porzioni di materiale scultoreo o unendo componenti; e le sue sculture divennero allora forme semplici, ottenute dall’accostamento di unità geometriche elementari.

Andre è così diventato celebre per i suoi cosiddetti “pavimenti”, cioè delle superfici – calpestabili e non – composte di varie lastre quadrangolari uniformi accostate tra di loro in modo geometricamente regolare.

Anche se lo scultore americano non ha mai utilizzato superfici propriamente naturali, ma solo risultanti da lavorazioni industriali (anche il legno), possiamo prendere in considerazione per il nostro discorso alcune questioni da lui poste. Le sue superfici scultoree non sono propriamente dei pavimenti, ma tali vengono considerate nel momento in cui le si osserva all’interno di una spazio espositivo o un area naturale: accostando superfici quadrangolari in modo regolare si delimita uno spazio, un dentro ed un fuori, spazio caotico esterno e spazio geometrico interno; lo spazio interno si pone così come maggiormente antropizzato perché meno indifferenziato di quello esterno. La cosa interessante proposta da Andre è il fatto che soltanto accostando diversi elementi si può suggerire l’idea di una superficie “antropizzata”; al contrario se la superficie scultorea fosse composta soltanto di un unico elemento, pur con lo stesso profilo e fatto con lo stesso materiale di un suo “pavimento”, essa non si porrebbe come area interna rispetto ad un esterno, ma solo come forma che occupa uno spazio (per quanto piatta essa possa essere).

Il tracciato di un (futuro) pavimento è la prima cosa che l’uomo fa nel momento in cui sceglie uno spazio naturale perché diventi luogo d’una abitazione. Ma affinché questa sia percepita già come area abitativa dovrà essere a sua volta suddivisa internamente da linee guida (possibilmente regolari).

E’ la successione di moduli che crea una articolazione interna dello spazio: facendo un parallelo col linguaggio verbale, la delimitazione della superficie pavimentale costituisce un primo livello di articolazione, la suddivisione interna ne costituisce un secondo livello. Il modo in cui i moduli interni vengono messi in successione denota ad esempio la differenziazione tra una stanza, un percorso o un incrocio, ecc.

L’effetto percettivo prodotto dal prato è esattamente l’opposto di quello dei “pavimenti” di Andre: se questi suggeriscono l’idea di uno spazio “interno”, il prato è in grado di suggerire – anche posto dentro uno spazio chiuso – l’idea di “esterno”. E’ ciò avviene perche dal punto di vista percettivo l’erba cancella il secondo livello di articolazione: tanto che un’architettura rivestita di una superficie di prato viene percepita, in un certo senso, come restituita alla natura.

Marco Izzolino


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